Robinson, 14 aprile 2019
Da dove vengono i rom
L’estate del 1423 non doveva essere diversa dalla altre a Bologna: finalmente il concilio aveva ricomposto lo scisma d’Occidente; Fioravanti iniziava la nuova ala del Palazzo dei Notai; la devotio moderna intrigava anche quel lembo d’Europa centromeridionale. Nella quieta calura felsinea del 18 luglio l’autorità si accorse però di una presenza che per la prima volta entrava nelle cronache dell’Occidente. Fuori porta Saragozza s’erano accampati dei pellegrini anomali, che viaggiavano in comitiva; una comunità girovaga che portava pericolosa allegria e attirava troppi abitanti della Dotta per farsi leggere la mano da indovine sospettabili di pratiche stregonesche.
Invece, con sorpresa di tutti, quei carri di gente misera potevano esibire una patente imperiale, col sigillo di Sigismondo, l’imperatore del concilio di Costanza: diceva che i latori della stessa erano “pellegrini del piccolo Egitto” o qualcosa di simile; dunque protetti dalle leggi della cristianità. Quel nome, ripetuto in altre patenti e cronache oscillava: pellegrini verso l’Egitto (e dove?), o dall’Egitto (come diceva la carnagione bruna?). Comunque “Egizi” e per storpiatura Gypsies, Gitani, con la possibile convergenza semantica con “aziganoi”, intoccabili, paria dell’Europa castale.
La provenienza di questi figli del vento, unici barbari pacifici e disarmati venuti da Oriente, sarebbe rimasta a lungo incerta; e la più credibile – una migrazione dall’India e dalle valli del Sinto, iniziata nel V secolo – non spiegava il permanere fra queste genti di un nomadismo simbiotico rispetto alla società rurale. Alcuni erano transitati verso l’Europa da una rotta meridionale, che li aveva familiarizzati all’islam e poi identificati come quelli del Corano, i Korakané. Altri da nord passando per le terre cristiane slave, e poi a ovest e a nord dopo la vittoria islamica nei Balcani del 1392, si muovono dalla Svezia alla Sicilia. I loro mestieri erano mestieri simili a quelli di tutti i nomadi. Al pari di quei mitici musici venuti dall’India di cui parlano le cronache arabe e armene dei secoli V-X anche gli zingari d’Europa suonano e ballano, fanno pentole di rame, battono ferri e chiodi, dorano gli stucchi delle grandi chiese, allevano cavalli, addestrano gli orsi, lavorano la terra come servi: mestieri che danno alle loro piccole corporazioni nomi ungheresi. E tramandano la cultura e la lingua dell’uomo (Rom) che vive del suo camminare, sulle grandi rotte che vanno dalla Bielorussia al Portogallo, o nel piccolo delle rotte nazionali, o perfino nei quartieri “zingari” di Istanbul. Le loro donne hanno attorno a sé – se ne accorge la letteratura – il fascino che esce dai canoni stabiliti ed eccita fantasie inconfessabili, come sanno i melomani che disputano sulla miglior Carmen di sempre e perfino i bambini che a Disneyland comprano la bambola di Esmeralda.
Una presenza trasversale che si mescola con il furto, sulla quale esiste pure un midrash zingaro. Come il Pilato del vangelo, anche il fabbro zingaro che nella leggenda è a Gerusalemme ai tempi di Gesù ha una moglie sognatrice. E quando il centurione viene a ordinare quattro chiodi lei, la zingara, lo supplica di non batterli, perché servono per uccidere il figlio di Dio. Spiccio e testone il marito i chiodi li fa lo stesso. Ma la moglie segue di soppiatto il soldato: e quando capisce che davvero servono per quel che temeva, cerca di portarli via. Ne riesce a rubare solo uno, ma uno lo prende: tant’è che tutti i crocifissi moderni hanno tre chiodi sulla croce. E per questo, dopo la risurrezione, Gesù la cerca, la ringrazia per quella pietà, e le dà il dono di rubare senza farsi vedere, cosa che legittima e benedice la destrezza del “ciorel": quel “caritare” che la poesia di De André aveva colto con la stessa delicatezza.
Ma non è però il piccolo furto che giustifica quel che accade loro fra l’espulsione da Milano del 1512 fino alla loro Shoah nel Novecento. L’impunità per chi li umilia o li uccide, sancita fin dal secolo XVI, non è il peggio: perché fuori dallo Stato di diritto è normale far differenze che rendono assassini i più codardi fra i volonterosi e i più volonterosi fra i codardi. Il peggio è la costruzione di una maschera che vede in ogni tribù, in ogni clan il ripresentarsi dello stereotipo persecutorio: ladri, eretici, cannibali, girovaghi svogliati da ridurre allo schema con la sedentarizzazione forzata, l’espulsione; e se serve la strage. Un filo nero che passa da Maria Teresa d’Austria. L’imperatrice impone la sedentarizzazione, proibisce la lingua e infine farà rapire i bambini Rom dagli sbirri per chiuderli in collegi e rieducarli: quasi tutti per fortuna ritrovati e "rapiti" dalle loro mamme. Ma anche questa resistenza materna pacifica si ritorcerà contro i Rom, additandoli come coloro che " rubano i bambini". Un filo nero che continua in molti paesi: riappare ad esempio in Romania dove gli zingari vennero emancipati dalla condizione di schiavi solo nel 1856. E arriva fino al Barò Porrajmos, lo sterminio degli zingari perpetrato dai nazifascisti che, dopo averli scartati dalla lista degli "ariani", li mandavano alle camere a gas senza nemmeno tatuarli (500 o 600mila: che differenza faceva?), generando quel legame che continua fino alle parole miti e necessarie di Liliana Segre e Noemi di Segni dell’ultimo anno.