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 2019  aprile 14 Domenica calendario

Foggia capitale del crimine

Ci sono realtà che i numeri faticano a descrivere. Prendiamo la provincia di Foggia, quella dove ieri – a Cagnano Varano – ha perso la vita il maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Di Gennaro, 46 anni, ucciso durante un servizio di pattuglia. Un pregiudicato, Giuseppe Papantuono, lo ha freddato con un colpo di pistola all’addome in pieno giorno, al centro del paese. Di Gennaro è morto in auto, prima di arrivare in ospedale. Eppure a guardare la classifica sulla criminalità, elaborata sulla base delle segnalazioni pervenute alle varie Forze di polizia, a Foggia la situazione pareva tornata sotto controllo. Nel 2017, secondo l’indice di “pericolosità” delle Province stilato dal Sole 24 Ore, il distretto della “Capitanata” poteva vantare una diminuzione del numero complessivo dei reati: 25.905, ovvero 4.142,7 ogni 100mila abitanti. Il 4% in meno rispetto all’anno precedente. Ma se i furti risultavano in diminuzione (12.557, il 7% in meno), gli omicidi volontari consumati erano pericolosamente in crescita: dai 14 del 2016 ai 20 del 2017, ossia 3,20 ogni 100mila abitanti. Il 43% in più rispetto ai dodici mesi precedenti, che vale un triste terzo posto nella classifica tra le 106 Province italiane. E allora non è un caso se il capo della Polizia, Franco Gabrielli, a gennaio, durante la visita in prefettura, abbia ammesso che sì, «a lungo abbiamo sottovalutato la criminalità nel Foggiano. Si è sottovalutata la pervasività e l’incisività delle organizzazioni criminali nella Provincia». Almeno fino al 2017, quando quella che è stata ribatezzata la «Quarta mafia» ha firmato due agguati: uno a San Severo, i colpi d’arma da fuoco contro i mezzi della Polizia; l’altro a San Marco in Lamis, il duplice omicidio dei fratelli Luciani, due agricoltori uccisi per aver assistito a una strage di mafia. Recentemente, un’interpellanza e un’interrogazione parlamentare – entrambi firmati M5S – hanno riacceso la luce su quanto accade nella Puglia settentrionale.

IL BOLLETTINO
Al di là dei quesiti indirizzati al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è impressionante l’escalation degli atti intimidatori in questo inizio di 2019. A fine gennaio, tre ordigni hanno colpito altrettante attività commerciali nel quartiere produttivo della città: un megastore, un negozio e un emporio. Al punto che nelle strade si è scatenata la psicosi. Basta un trolley dimenticato a far scattare il piano d’emergenza: strade transennate, edifici evacuati e artificieri sul posto. E quando non si tratta di un falso allarme, le “bombe carta” sono fatte brillare. Come all’inizio di febbraio, quando una borsa della spesa contenente tre ordigni rudimentali – più novanta petardi – è stata ritrovata nel quartiere settecentesco della città, pronta a colpire l’ennesima attività commerciale. Attentati dinamitardi, denunciano i senatori grillini, finalizzati a «prostrare psicologicamente la cittadinanza foggiana» per «incutere il terrore tra gli operatori economici, al fine di poterli più facilmente sottoporre a estorsione». Due mesi dopo, San Nicandro Garganico è stata bersagliata da rapine a furgoni portavalori e tabaccherie, furti in appartamento e perfino una sparatoria in pieno centro. L’ultima rapina, davanti all’ufficio postale, c’è stata una decina di giorni fa.

ASSOLUTA OMERTÀ
Nell’interrogazione depositata lo scorso 6 febbraio, M5S rimanda alla risoluzione approvata dal Consiglio della magistratura il 18 ottobre 2017 sull’analisi del fenomeno mafioso nella provincia di Foggia. Laddove a proposito delle denunce «pressoché inesistenti» – i «pochi cittadini che le presentano quasi sempre in sede processuale ritrattano» – si legge che gli imprenditori, dopo una fase in cui subivano «un assoggettamento di tipo violento», sono passati a un «atteggiamento di volontaria sottomissione al sistema mafioso». Addirittura «è lo stesso imprenditore che si reca autonomamente dal mafioso per pagare il pizzo, anticipandone in tal modo la richiesta». E ancora: in alcune zone della provincia di Foggia, «il radicamento socio-culturale del sistema mafioso è così forte da produrre una generalizzata e assoluta omertà che, talvolta», sfocia «nella connivenza se non nel consenso». Basti pensare che dal 2007 «non si hanno collaboratori di giustizia interni ai circuiti associativi».