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 2019  aprile 14 Domenica calendario

Intervista a Massimo Popolizio

All’improvviso alza lo sguardo, con calma, senza movimenti bruschi, quindi solleva la tapparella a difesa di se stesso, fissa negli occhi l’interlocutore, e diventa ipnotico. Non capita spesso. Si dosa. Perché di solito, mentre parla, Massimo Popolizio guarda in basso o di lato, assorto, sorride della sua vita, delle sue scelte, non maschera un’antica timidezza, e non si sente un “maestro” del teatro (“quelli veri li ho conosciuti”); eppure è l’erede di Luca Ronconi, con lui e per lui ha recitato per venticinque e passa anni fino allo svenimento (“è successo a Torino, ero a pezzi”), ed è uno dei pochi attori e registi a registrare sold out nei grandi teatri italiani e commenti entusiastici dalla critica (è all’Argentina di Roma con Un nemico del popolo). Il cinema lui lo definisce “un bancomat”, pragmatico, i suoi ruoli non sono molti, quei pochi hanno una storia viva, pennellata, e restano, come Vittorio Sbardella ne Il divo, Mussolini in Sono tornato, il presidente della Roma ne Il campione (è nelle sale).
È un bel 58enne.
Migliorato invecchiando.
È un interprete cangiante.
Perché non trovo divertente rappresentare me stesso, anzi non sono in grado, appartengo a un Dna di attore dove i personaggi si costruiscono.
Racconta Marco Bocci: “Quando ero in compagnia con Popolizio e la Melato, i margini per un confronto erano pochissimi”. 
Non è una questione di parlare, o di confrontarsi sulla parte, ma di vedere come gli altri la costruiscono; così quando mi dicono “per te Ronconi è stato un padre”, ogni volta penso “è vero, ma ho avuto anche tanti zii e parenti”.
Chi sono i “parenti”?
Penso a Mariangela Melato, Umberto Orsini, Corrado Pani, Anna Maria Guarnieri, e con loro è stato importante guardare come impostavano il ruolo e soprattutto come affrontavano le varie difficoltà che Ronconi piazzava. Alla fine non era solo una scuola di recitazione, ma di vita.
Quali difficoltà?
Lavorare con Ronconi non era una punizione, lui ti allargava il cervello, ma questa apertura non arrivava gratis: ogni volta dovevi dimostrare di essere in grado.
Totalizzante.
Non avevi spazio per altro; sì, sono stato sposato, ma fondamentalmente la mia vita era il lavoro, e non per una questione di successo personale, solo semplice necessità professionale; con lui stavamo sul palco per delle ore.
Infinite…
Alle Olimpiadi di Torino del 2006 ero impegnato con Atti di guerra, spettacolo di nove ore, diviso in tre giorni. Prove lunghissime. Sono svenuto alla fine della rappresentazione, e ricoverato, ero dimagrito undici chili.
Da regista cosa evita degli insegnamenti di Ronconi?
Lo stato oppressivo, cerco di non ripetere l’atteggiamento non produttivo che a volte si instaurava nella compagnia, quando tra gli attori si sviluppava un blocco emotivo di grande paura.
Come mai?
Per stare bene su un palco ci vuole grande energia, però è necessario saperla cavalcare; recitare non è energia a prescindere, come molto spesso vedo negli spettacoli giovanilistici (ci pensa). Ecco, con gli attori vorrei evitare l’errore di non comprenderli; vanno capiti, perché è un mestiere difficilissimo.
Nel cinema spesso i registi parlano della necessità di “coccolare” l’artista. 
Lì diventi una star, ci sono altri parametri, differenti coinvolgimenti: devi trovare il rapporto con il regista, sperare nel montaggio o nella luce studiata dal direttore della fotografia; il teatro è più un risultato del collettivo e permettere di mostrare chi sei.
Per alcuni attori il teatro è una forma di terapia.
È vero, però la professionalità è un’altra cosa, e non sono molto d’accordo quando il teatro terapeutico si tramuta in spettacolo; in generale i dolori e le disgrazie personali non vanno esibite, purtroppo qualche regista ci casca.
I suoi colleghi denunciano una situazione disastrosa…
Per molti aspetti è un Far West: chi comincia oggi a frequentare un’accademia, deve avere alle spalle una famiglia, o è quasi impossibile.
Lei l’aveva?
No, sono andato via da casa a 19 anni e non sapevo neanche cosa fosse il palco; il teatro è stato un taxi che mi ha permesso di chiudermi alle spalle la porta dei miei.
Economicamente, come si sosteneva?
Allora c’era un’altra Italia, un altro mondo, altre regole e soprattutto differenti eccezioni a quelle regole: una piccola illegalità bonaria che ti permetteva di sopravvivere.
Come?
Per non pagare la luce mettevamo una pellicola sul contatore, oppure per tre anni ho guidato la moto con il solo foglio rosa, o mi saldavano in nero quando vendevo le pentole; oggi non puoi ingegnarti, siamo tutti controllati.
Si interessava di politica?
(Risposta d’istinto) No. (Risposta ragionata) Nella mia zona, Monteverde (medio borghese), c’erano molti licei, e spesso dai Parioli (molto borghese) arrivavano i fascisti a bordo delle loro Vespe. Stavo lì. Una volta, e avevo 16 anni, mi incazzo per l’aggressione, decido di ribellarmi, quindi raccolgo da terra un sampietrino e mentre stavo per attaccare, arriva la polizia.
E lei?
Mi spavento, non sapevo come muovermi, si ferma un autobus e salgo.
Salvo.
Macché, ero talmente impreparato a certe situazioni, da non buttare la pietra, l’infilo nella tasca del montgomery, e vedo la polizia salire sul mio autobus; mi sono cagato sotto, avevo paura della violenza, e fino ai 17 anni ero piccoletto e magrissimo.
Per questo non picchiava.
E guardavo con ammirazione chi andava in giro con la tonfa (manganello), per me erano dei miti di coraggio.
Altri miti di allora?
In realtà non sono mai stato fan di qualcuno o di qualcosa, però ho affrontato l’autostop per raggiungere Milano e assistere al concerto in memoria di Demetrio Stratos.
Lei era un liceale?
No, studiavo Ragioneria e per volere di mio padre, desiderava qualcosa di spendibile.
Insomma, niente politica.
Frequentavo più una parrocchia gestita da un francescano, padre Raffaele, uomo molto particolare, uno che in Nigeria era stato in galera con Bokassa, uno con due palle che gli fumavano: si era indebitato a vita pur di costruire un campetto da calcio e un teatrino per ragazzi.
Quando ha scoperto le potenzialità della sua voce?
La voce è come una lasagna a strati, carne, besciamella, sfoglia: ogni strato ha un punto differente di intonazione, è il tuo strumento per lavorare, è la somma di tutto quello che hai affrontato nell’esistenza.
Come hanno reagito i suoi al “voglio diventare attore”?
Frase secca: “Vuoi? Se guadagni abbastanza…”.
Ancora pragmatici.
Da loro non ho mai ottenuto nulla, e neanche potevano: mio padre era rappresentante della Miralanza, in casa uno stipendio solo e quattro figli, io il maggiore.
“Bisogna distinguere il mestiere tra abusivi, improvvisati e degni interpreti”, parole sue.
Innanzitutto uno deve individuare qual è il momento della tua vita nel quale comprendi che stai combinando; io cosa era il teatro l’ho capito anni dopo l’accademia, neanche ai tempi di Ronconi ne ero consapevole.
Come arriva la “luce”?
Da solo non puoi comprenderlo, ti aiutano gli sguardi degli altri, cosa intravedi tu nel prossimo; per questo spesso dico agli studenti: “Avere dentro un mondo da esprimere, non vi rende automaticamente attori. Anche mia sorella ha tanto da raccontare, ma è architetto”; la sensibilità e la fantasia sono delle componenti, ma non le uniche.
Il suo momento?
Da un certo punto in poi non ho vissuto una vera giovinezza: in 25-30 anni ho partecipato a più di 30 spettacoli di Ronconi, e altrettanti senza di lui; lì ho capito che il teatro è come il passino del pomodoro, tutti ci si buttano, ma avanzano in pochi.
Selezione dura.
Ronconi diceva sempre: “L’attore non è un mestiere da calcolare in uno, due o tre anni, ma sui venti”. Sono pochi quelli che resistono nel tempo: del mio corso in Accademia siamo rimasti in tre, mentre all’inizio eravamo in 28.
A cosa ha rinunciato?
Non lo so, forse ai figli; o forse il teatro è stato un alibi per non averne, mascherato dalle solite frasi “Sai, sono stanco”; “Lo stipendio non è fisso”; “Chissà che devo fare”; “Sono in tournée”.
Bell’alibi.
Perfetto. E il teatro è in assoluto un alibi: la tournée è una fuga dalla vita, come il set, sei in un’altra dimensione per 12 ore, quindi la realtà diventa quella, ed è sempre una dimensione migliore delle difficoltà quotidiane,
Meglio le coccole del set.
Molti miei colleghi vivono ovattati: ti prendono a casa, ti portano, ti accudiscono, puoi essere capriccioso.
Ha l’angoscia del palco?
La paura ti accompagna, e più sei consapevole e peggio è, mentre da giovani ignori lo spessore della situazione; certe emozioni ho imparato a gestirle, un tempo mi assalivano gli attacchi di panico.
Al cinema interpreta quasi sempre il cattivo.
E me ce rode tanto.
Come mai accade?
Perché ho questa faccia e nel cinema conta tanto; per fortuna ho interpretato pure Giovanni Falcone (Era d’estate, premiato con un Nastro d’Argento) che mi ha riscattato, altrimenti solo fiji de ‘na mignotta; comunque è più semplice la parte del cattivo che il buono; il cattivo piace di più.
Ne Il divo è un grande Sbardella.
Una delle forze di Paolo Sorrentino è quella di saper mischiare attori dimenticati, con altri famosi e altri ancora di provenienza teatrale.
Non ha girato molti film…
Il cinema è un bancomat, o almeno lo era.
La riconoscono per strada?
Quasi mai. Ogni tanto sul taxi a Roma mi chiamano “Terribile”, si ricordano la mia breve parte nel Romanzo criminale di Placido; io non sono Giallini, Accorsi, Favino o Germano, e neanche come le ultime leve di attori; poi non vado in televisione, però ho capito che l’affetto del pubblico accresce molto l’autostima.
L’ego dà energia.
Ci sono colleghi che mi domandano: “Ma tu puoi ancora fare la spesa? Io no…”.
L’ego può buttare giù.
La depressione è endemica nell’attore, non ne ho conosciuto uno che non l’ha affrontata.
Lei?
A quarant’anni, e forte.
“All’attore deve succedere qualcosa, se non succede niente meglio se cambi strada”. Ancora parole sue.
Non sempre, in certi ruoli, in particolare quando è necessario soffrire, dove ti devi massacrare, emaciare, con una consapevolezza: se io piango, non avviene lo stesso in platea.
Quindi?
Sentire le emozioni è utile, governarle è il mio mestiere; e qui ci sono degli equivoci da stroncare all’origine, e quando posso tento di spiegarlo in Accademia.
Stronchiamo.
È una stupidaggine cercare il mondo dentro se stessi, il mondo si cerca fuori; ognuno di noi ha tanti lati interessanti, ma la vita è fuori, piuttosto è necessario copiare, tutti i grandi hanno iniziato così: si individuano i riferimenti e si apprende.
I ragazzi capiscono?
Credono di essere unici, si ritengono la manifestazione più importante del mondo. Non è così. Bisogna rubare dagli altri e metabolizzare, avere la coscienza che il nostro è un mestiere orale, tramandato con il racconto.
Ha mai mandato a quel paese Ronconi?
Abbiamo litigato, eccome; sono arrivato a odiarlo, odio vero, più forte della mia vita; poi con lui non ho mai avuto un rapporto fuori dal palcoscenico, tutto nasceva e moriva in scena, perché è stato uno di quei registi che parlavano poco, preferivano mostrare la parte.
Anche lei così?
Assolutamente, è necessario, e poi non so parlare agli attori, preferisco interpretare tutte le parti.
E non li manda in crisi?
A volte, ma capiscono la mia buona fede ed è molto più chiaro mostrare che spiegare.
È un grande maestro?
Io ho conosciuto i veri maestri, ci ho lavorato, quindi no. Però posso affermare un punto: che so. Qualche cosa la so.
(Pasolini una volta scrisse: “Io so, ma non ho le prove”. Lui sa, e questa volta le prove ci sono)