il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2019
I minori nelle miniere africane per estrarre il cobalto
“Qualche volta avevo dolori al petto, altre tossivo sangue, ma dovevo continuare a lavorare per portare in superficie sacchi più pesanti di me. Lavoravo dall’alba al tramonto e guadagnavo pochi centesimi che mi servivano per mangiare”. La testimonianza non è estratta dal diario di un minatore di Birmingham del 18º secolo, ma l’esperienza di Mwiya, 13 anni, che vive a Kolwezi, Repubblica Democratica del Congo.
Il Paese ombelico dell’Africa fornisce da secoli al mondo le materie giuste al momento giusto. Il caucciù, l’oro, il rame, l’uranio, il coltan, solo per citarne alcune che hanno attratto in varie epoche appetiti internazionali e creato profitti spaventosi di cui, però, la popolazione non ha praticamente beneficiato. Da quando al mondo serve il cobalto, il Congo, che garantisce il 60% del fabbisogno mondiale, è divenuto meta di multinazionali che propongono modelli di produzione a metà tra feudalesimo e land-grabbing. Nel giro di neanche 5 anni, hanno causato uno sfruttamento intensivo di terre e popolazione e fatto precipitare il livello delle garanzie e dei diritti indietro di secoli.
Da quando è esploso il mercato delle auto ibride o elettriche, si è scatenata nel mondo la caccia a questo minerale fino a qualche anno fa ignorato. Per produrre la batteria di un’auto elettrica servono circa 9 kg di cobalto (per gli smartphone servono solo 6/7 gr di cobalto, ma sono molto più diffuse). Dunque un costante aumento della forza lavoro e un prezzo in continua ascesa. Mentre scriviamo, la quotazione al London Metal Exchange ha raggiunto i 30.000 dollari a tonnellata. Il prezzo negli ultimi anni è aumentato del 120%. Ma, invece di produrre benessere e sviluppo, questa moderna corsa all’oro sta generando emergenza umanitaria.
“Quando siamo giunti qui – spiega suor Catherine Mutindi, direttrice del Progetto Kolwezi della Fondazione Internazionale Buon Pastore – i genitori dicevano di esser terrorizzati che i figli morissero nei tunnel. Finora siamo riusciti a evitare a 1.800 bambini, molti di 7-8 anni, di finire nelle miniere, ma siamo una goccia nel mare: il primo cambiamento deve essere politico”.
I concittadini di Mwiya, nella regione dell’ex Katanga, l’area dove si concentra la stragrande maggioranza dei giacimenti di cobalto, abbagliati dall’idea di facili ricchezze, si stanno rivolgendo in massa all’attività estrattiva dopo aver abbandonato, anche perché costretti o deportati, campi e bestiame. L’80% è sfruttato in miniere industriali quasi tutte gestite per concessione governativa dalla Congo Dongfang Mining (controllata dalla cinese Huayou Cobalt). Il restante 20% si infila nei cunicoli scavati sotto casa per riportare alla superficie qualche chilogrammo a mani nude con paghe giornaliere che non arrivano a 2 dollari.
Il terminale ultimo delle estrazioni dei bambini di Kolawezi, sono multinazionali delle automobili come Daimler AG, Volkswagen, BYD e dell’elettronica come Apple, Samsung, Huawei, Dell, HP, Lenovo, LG, Microsoft, Sony, Vodafone a cui, dopo essere stato lavorato in gran parte da compagnie intermedie asiatiche, il cobalto viene venduto. Su di loro, e tutta la criminale filiera, dal 2016 è stato puntato il dito di Amnesty International, con il rapporto This is what we die for e il paradosso di compagnie che dicono di combattere il global warming (solo pochi marchi hanno risposto alla sollecitazione di Amnesty e introdotto policy etiche nella propria produzione). “Il luogo che maggiormente sta aiutando a ‘pulire’ il mondo – ha spiegato Anneke Van Woudenberg presidente di Rights and Accountability in Development – è uno dei più inquinati e maledetti della terra”.
“A scuola – sorride Mwiya, ormai inserito nei programmi della Buon Pastore –, oltre alle materie, ci hanno insegnato i nostri diritti. Un bambino non può dormire all’aperto o affamato, non deve esser picchiato né costretto a lavorare. Non ho mai sperato che la mia terra potesse un giorno cambiare, ora, invece, ne sono certo e aiuterò altri bambini a difendere i loro diritti”.