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 2019  aprile 14 Domenica calendario

Attento: l’attore ora sei tu

Dopo le potenti suggestioni innovative messe in mostra dal recente “Vie Festival”, altre due proposte del teatro contemporaneo europeo hanno scosso nei giorni scorsi le platee italiane, LA PLAZA del gruppo spagnolo El Conde de Torrefiel, visto al Teatro dell’Arte di Milano, e Granma. Metales de Cuba dei Rimini Protokoll, presentato – purtroppo anch’esso per due sole sere – in un’affollatissima Arena del Sole di Bologna. Sarà anche un caso, ma questa ondata di grandi spettacoli del tutto anti-tradizionali arrivati dall’estero in così breve tempo sembra il segnale di qualcosa che sta accadendo.
È ormai chiaro che esiste una corrente internazionale che in varie direzioni, ma con un fine comune – l’affrancamento dalla mimesi, la reinvenzione dei linguaggi della scena – è cresciuto negli anni e sta oggi letteralmente esplodendo. Si rassegnino i nostalgici delle corone di latta, non è un fenomeno passeggero: la fortezza del vecchio teatro sta per crollare. È impossibile continuare a far finta di non accorgersene. Soprattutto El Conde de Torrefiel ha impressionato per la forza silenziosa con cui impone un incalzante sguardo sul nostro tempo. LA PLAZA è il suo terzo lavoro che si vede in Italia, dopo La posibilidad que desaparece frente al paisaje e Guerrilla. Anche qui il fatto che non vi sia una sola parola recitata, ma un testo scritto che scorre su uno schermo, non è un limite ma una modo di penetrare alle radici del pensiero nel momento stesso in cui esso prende forma. 
Pablo Gisbert, creatore di questo apparato verbale (mentre della regia si fa carico Tanya Beyeler) si conferma autore vero, dotato di un proprio ritmo e un proprio stile: l’inizio, col sipario che si apre su un palco vuoto coperto solo da un tappeto di fiori illuminati da candele, è fulminante: «sei seduto di fronte a un palcoscenico poco illuminato – dice la scritta proiettata – stai guardando LA PLAZA di El Conde de Torrefiel». Poi, via via, il tu cui Gisbert si rivolge diventa un altro, lo spettatore di un’ipotetica pièce presentata per 365 giorni in 365 città del mondo, una pièce in cui non accadeva nulla, se non lo sguardo dentro se stesso di questo ideale spettatore. Terminata la pièce egli esce dal teatro, percorre la città, assiste ad alcune situazioni urbane, sempre sul filo di quel flusso di coscienza dove lo spettatore diventa una “maschera” dell’io parlante e viceversa, ed entrambi sono le “maschere” dell’autore. 
Ciò che costui osserva sono segmenti di vita evocati da performer senza volto, coi lineamenti cancellati da calze di nylon: un gruppo di donne musulmane che conversano tranquillamente, una ragazza europea, drogata o ubriaca, che crolla a terra, fra passanti indifferenti e ragazzi che le tolgono gli slip per postarne la foto sui social, una comitiva di turisti invadenti, dei cineasti che filmano il riconoscimento di un cadavere. Il testo e le azioni evidenziano lievi discrepanze, in cui si insinua la percezione di quell’assoluta soggettività del reale che è l’autentico filo conduttore dello spettacolo. È esattamente l’opposto di quanto fanno i Rimini Protokoll, che la soggettività, i punti di vista personali li portano a un livello quasi didascalico. Che cos’è Granma. Metales de Cuba se non un grande excursus sulla rivoluzione castrista, su ciò che è stata e ciò che ne resta oggi, composto giustapponendo pezzo a pezzo le testimonianze non dei protagonisti ma dei loro discendenti, in uno struggente confronto generazionale. In scena, infatti, come sempre nelle creazioni del collettivo tedesco, non ci sono attori, ma una giovane storica, un autore di cartoni animati, un ingegnere informatico e una musicista, rispettivamente nipoti di una pasionaria socialista, di un ex-ministro, di un pilota combattente in Angola, di un membro dell’orchestra che suonava per le truppe cubane schierate sui vari fronti. In loro si incarna una gamma di stati d’animo che spazia dall’ostinazione nel voler correggere gli errori del regime, continuando però a credere in esso, al distacco, al dissenso aperto, ma sempre nel segno di un profondo rispetto per il passato e il presente del Paese.
In uno spazio quasi vuoto, arredato solo da un piccolo podio e una metaforica macchina da cucire, il progetto di Stefan Kaegi, apparentemente improntato a mere finalità documentarie, è di fatto una costruzione complessa che mette insieme sentimenti privati, utopie politiche, video, filmati d’epoca, immagini famigliari. Accompagnandosi con tromboni che all’occorrenza diventano fucili o spade, svariando dai libretti di razionamento all’incongruo rapimento del campione di automobilismo Juan Manuel Fangio, i quattro tracciano l’affresco ironico e commosso di un’esperienza iniziata fra mille speranze e finita nella corruzione, nella decadenza, nelle fughe di giovani all’estero. L’impianto drammaturgico è denso, un po’ ridondante. Ma il suo andamento non segue le regole di un normale spettacolo, vuole fornire un ampio scorcio di realtà in cui ciascuno può trovare i propri spunti di riflessione.