Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2019
L’età d’oro della superstizione
Una formula usata ancora oggi popolarmente nell’Italia meridionale – tra il serio e il faceto, forse – per scongiurare il mal di denti recita: «Mulu ca non faci figli, félicu ca nun caccia sumènta, iu créru ca ’ngé Ddiu onniputente, famme passà stu male r’rienti» (‘Mulo che non fa figli, felce che non emette semi, io credo che esiste Dio onnipotente, fammi passare questo mal di denti’). Forma e contenuto di questo scongiuro sono quasi identici a quelli di un testo che si legge in un manuale di veterinaria equina scritto in Toscana ai primi del Trecento: «In nome del Padre et del Filio et Spirito Sancto, amen. Secondo ke la felce no fiorisce et secondo ke lo mare non à conducitore et secondo ke lo pescie non à remi et secondo ke la mula non à fructo, et così possa scampare di questo dolore». E un incantesimo sostanzialmente identico si trova già nel trattato De medicamentis scritto tra il IV e il V secolo dall’alto funzionario imperiale Marcellus detto empiricus (cioè medico): un testo in cui alle ricette mediche si mescolano i rimedi verbali, fondati sulla convinzione che la guarigione delle malattie si possa raggiungere sia con le erbe, sia con un carmen, cioè con l’aiuto di parole oscure e di formule capaci di agire sulla realtà modificandola, secondo uno dei principi ispiratori della magia in generale.
Nell’esempio appena richiamato c’è uno dei caratteri – cioè la continuità storica e culturale – più sorprendenti di un volume scritto dal filologo romanzo Marcello Barbato, dedicato agli scongiuri del Medioevo europeo. È probabile che questo libro diventerà un classico per la capacità che ha di inquadrare nitidamente, descrivere storicamente, razionalizzare e presentare in tutta la sua concretezza linguistica e filologica un argomento sommamente irrazionale: la superstizione. In particolare quella che si manifesta nei testi del Medioevo romanzo, figlia della magia dei latini (poco nota, perché quasi invisibile nella letteratura antica), e madre di quella che il razionalismo moderno ha relegato e spesso dissimulato nella cultura popolare veicolata dai dialetti.
Incantamenta latina et romanica adotta nella veste e nella struttura la forma propria della collana in cui esce: in apparenza, si tratta semplicemente di un’antologia commentata di scongiuri e formule magiche di epoca medievale, scritti in latino o in varie lingue romanze tra il quinto e il quindicesimo secolo. Sono testi già noti e più o meno affidabilmente già editi, soprattutto nell’ambito di studî storici o filologici dedicati ai singoli contesti – tra loro molto eterogenei – in cui tali formule si trovano conservate. La scelta e l’accostamento fanno risaltare suggestive analogie da un estremo a un altro della Romània (gli scongiuri volgari provengono dalle Asturie, dalla Catalogna, dalla Provenza, dalla Francia, da tutta l’estensione linguistica dell’Italia medievale, dal Jura franco-svizzero in cui s’ambienta un processo alle streghe, fino alla Britannia anglonormanna), e da un capo all’altro della lunghissima stagione della civiltà che chiamiamo medioevo.
A tale antologia si accompagna un’introduzione più ampia della raccolta stessa, che è un piccolo capolavoro. In circa centocinquanta pagine, Barbato traccia con la mano sicura dello storico e con la salda padronanza del linguista lo svolgimento nel tempo e la classificazione per tipi della congerie apparentemente caotica di testi con cui il medioevo europeo testimonia – spesso in modo occasionale, semiclandestino o marginale – la costante produzione di testi dedicati alla funzione fondamentale dello scongiuro.
Lo scongiuro consiste, in estrema sintesi, nell’uso di parole (di alcune parole in particolare) e di storie (segnatamente di alcune brevissime narrazioni) al fine di procurare un bene o di scacciare un male. Esso fa leva su una pretesa funzione magica del linguaggio che trapassa dalla società pagana a quella cristiana, e vi si radica fino alle soglie dell’età moderna.
Il suo interesse è perciò in primo luogo linguistico generale, nel senso che la formula magica attiva procedimenti perfettamente paralleli a quelli che sovraintendono ad altri ambiti del linguaggio: ad esempio, facendo leva sulla somiglianza o sulla contiguità di elementi (come càpita per la metafora o per la metonimia) per potenziare le risorse della lingua. Una tecnica quasi universale è poi quella che pretende di far uscire il male da chi soffre trasferendolo da una parte del corpo all’altra, attraverso un processo verbale parallelo, spesso rappresentato anche graficamente come una cascata di parole: così era nelle formule medievali superstiti, e così è ancora in certi malocchi mormorati nella penombra della credulità popolare.
Ma il suo interesse è anche propriamente storico linguistico. Molti scongiuri scritti frettolosamente negli spazi bianchi di certi codici medievali rappresentano testimonianze tra le più antiche delle lingue romanze, o precoci attestazioni di un territorio di confine tra scrittura in latino e scrittura nelle lingue volgari. Non solo. Essi illustrano anche la frontiera tra la dimensione del parlato – l’incantesimo deve spesso la sua forza al fatto di essere pronunciato, ex opere operato – e quella dello scritto. Un genere sopravvissuto in pochissimi esemplari è quello del breve, foglietto di pergamena che si portava o si poneva a contatto con il corpo, e che conteneva un testo “miracoloso”, ad esempio una versione concentrata della vita di Santa Margherita, che proteggeva le partorienti. L’antenato del santino moderno. Barbato affronta necessariamente il nodo del rapporto fra scongiuro e religione ufficiale, ricostruendo il percorso di una chiesa delle origini che lotta fra sradicamento delle pratiche pagane e cristianizzazione di quelle più inestirpabili. Arriva poi l’«età dell’oro» dello scongiuro – i primi secoli del secondo millennio – in cui l’incantesimo si libra indisturbato e ben tollerato tra la preghiera, la pratica medica, la magia casereccia. Serve a stagnare il sangue delle ferite quando evoca l’immersione di Gesù nel Giordano, a scacciare i bruchi dai campi quando evoca l’incontro con tre santi in cui solo l’occhio dell’antropologo può riconoscere un insospettabile trio pagano d’ascendenza antichissima (Barbato abbozza una tipologia degli incantesimi che somiglia a quelle che i formalisti proponevano per le fiabe). Gli scongiuri circolano tra mondo romanzo e mondo germanico, si trasmettono e migrano non diversamente dai cicli leggendari su cui fiorisce la letteratura europea dei primi secoli, e spesso si annidano tra le sue stesse pieghe. Mani zelanti li cancellano dalle pagine dei manoscritti: forse credendo di annullarne il potere, oppure al fine di censurarne la circolazione. L’organizzarsi ancor prescientifico del sapere medico tardomedievale, il razionalismo, la Riforma protestante – vero tornante della storia spirituale europea – li fanno rientrare in clandestinità giusto alla fine di quell’età media (media tra un prima e un dopo) che ci ricorda quanto poco lineare e quanto malcerta sia la storia del nostro progresso. E quanto fragile sia stata a lungo – e sia ancora, forse, più di quanto non sospettiamo – la linea di confine tra razionale e irrazionale.