Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2019
Così a Roma è diventato eterno anche il debito
Accettare un finanziamento che costa in interessi quasi il doppio del capitale è una scelta impegnativa. Il Campidoglio l’ha fatta nel 2004, quando ha lanciato il maxi-bond “City of Rome” da 1,4 miliardi che per essere ripagato ne chiede 3,6. È andata un po’ meglio al commissario straordinario al debito di Roma tra 2011 e 2014, quando ha chiesto allo Stato di anticipare 3,5 miliardi di contributi per ottenere subito i soldi che la legge avrebbe garantito in sette anni. La restituzione in questo caso gonfia il conto fino a 5,5 miliardi. Quindi gli interessi valgono “solo” il 69 per cento.
Ci sono queste e altre mosse a rendere Roma la «Città Eterna» anche dal punto di vista dei debiti. Mosse che creano debito nuovo per pagare il debito vecchio.
Il lievito
Il problema non è solo romano. Ma come spesso le accade, la Capitale sa replicare in forma concentrata vizi strutturali del Paese. Il meccanismo dei debiti che creano debiti è descritto nelle relazioni tecniche arrivate al Tesoro per cercare la soluzione e consultate dal Sole 24 Ore. In quelle carte si scioglie il mistero: com’è possibile che dopo 10 anni di vita la «gestione straordinaria», cioè la bad company creata dal governo Berlusconi per gestire le eredità contabili pre-28 aprile 2008 ed evitare il dissesto del Campidoglio, abbia ancora sulle spalle 12,1 miliardi di debiti? Semplice: a Roma la «massa passiva» non è inerte ma vive. E mentre i pagamenti la riducono gli interessi la gonfiano. Perché le entrate sono un’urgenza di oggi, e gli interessi un problema di domani. Non solo: gran parte degli anticipi dallo Stato, 2,5 miliardi su 3,5, sono stati girati al Comune in un complicato dare-avere che ha caricato poste aggiuntive sulle spalle del commissario. L’agenda tutta concentrata sul breve termine è confermata anche da due derivati (circa 350 milioni di sottostante) firmati dal Campidoglio nel 2007, che hanno sostituito vecchi mutui a tasso fisso con un meccanismo «step up». «Step up» perché aumenta i tassi, dal 4% dei primi anni fino a valori fra il 6,3 e il 6,7%. Ma su altri mutui lo stesso lievito porta sopra il 9% interessi che all’inizio non superavano il 2%. Risultato: su 490 milioni di capitale ancora da pagare ci sono 714 milioni di interessi. Mentre fuori dal Campidoglio la crisi scoppiata nel 2007-8 ha azzerato i tassi.
Il passaggio allo Stato
Così la gestione commissariale, seppur «straordinaria», è stata pensata a suo tempo senza data di scadenza, insieme ai contributi statali e alla super-addizionale al 9 per mille (sopra il tetto nazionale all’8 per mille) e alla tassa di un euro chiesta a chi sale su un aereo a Fiumicino e Ciampino. Eterne anche loro. Come tutto in città.
La questione è tornata di attualità per la norma, inserita nel decreto crescita ancora in complicata gestazione, che creerebbe le condizioni per chiudere la partita in tre anni. La soluzione-ponte ha subito acceso una nuova polemica fra Lega e M5S. Perché il Campidoglio fa gola. La Lega ci punta, i Cinque Stelle si difendono. Per Roma «il governo sta facendo di tutto – dice il leader del Carroccio Salvini -, l’unica cosa che non potrà fare è regalare soldi a una città ignorando le altre. Qui serve un’amministrazione pronta, sveglia e presente». «Ha ragione Salvini – ribatte la viceministro all’Economia Laura Castelli -, molti Comuni hanno seri problemi perché gestioni politiche irresponsabili li hanno ridotti a colabrodo». E sul debito romano Castelli vuole «tranquillizzare il collega di governo, nessun nuovo onere sarà posto a carico degli italiani». Ma Salvini ributta la palla nel campo M5S: «Roma non è mai stata così sporca, ferma, caotica e disorganizzata. Colpa di Salvini o di un sindaco 5Stelle che non ha combinato niente»?. Immediata la replica di Virginia Raggi: «Si occupi della sicurezza, mi pare che il lavoro non manchi».
La battaglia politica intorno al Campidoglio circonda la norma del decreto crescita, che dividerebbe in due i vecchi debiti: la parte più consistente tornerebbe al Campidoglio, insieme agli attivi già nei conti del commissario e necessari a garantire gli equilibri. Il bond del 2004, che paga un interesse del 5,345% e prevede il rimborso del capitale in soluzione unica alla scadenza il 27 gennaio 2048, finirebbe allo Stato, previa adesione dei sottoscrittori. Il passaggio non scaricherebbe nuovo debito di Roma su tutti gli italiani. Ma per la semplice ragione che quel debito è già in carico agli italiani, con i 9 miliardi garantiti dal decreto Berlusconi del 2010 in comode rate da 300 milioni l’anno. Quel che rimane del contributo tornerebbe al Tesoro con il debito da ripagare.
Il fallimento del curatore
A studiare la soluzione che chiude la gestione straordinaria è stato lo stesso commissario al debito. Il curioso caso di una struttura pubblica che crea le condizioni per sparire si spiega con i numeri scritti nelle carte in mano al Tesoro. Oltre a produrre 2,5 miliardi di interessi, le anticipazioni chieste nel 2010 riducono gli assegni annuali spediti ora dal Mef. Oggi il commissario riceve 120 milioni invece di 300, con il risultato che dal prossimo anno non avrebbe più i fondi necessari a pagare le rate dei mutui. Un “fallimento” del curatore fallimentare sarebbe l’ennesimo inedito romano.
Basta super Irpef?
E il Comune? Ad aiutarlo a sbrogliare la matassa dei debiti che tornerebbero a casa ci sarebbe un altro unicum capitolino: il debito privo di creditore. Perché uno dei poco più di tre miliardi di debiti commerciali ancora in pancia al commissario è legato a vecchi espropri di 40, 50 o 60 anni fa, lungo una storia infinita in cui spesso si sono persi i titolari dei crediti. Altri 600 milioni sono al centro di contenziosi da almeno 12 anni, per cui anche qui la spesa ha buone probabilità di rimanere confinata nell’ambito impalpabile del «potenziale». Per ulteriori 600 milioni, il creditore è lo stesso Campidoglio, per cui il ritorno del debito si trasformerebbe in una partita di giro. Che cosa resta? Tolti i debiti fuori bilancio, restano circa 300 milioni di fatture ante-2008 ancora non pagate. Basterebbe una pulizia dei conti, insomma. E basterebbe a cancellare la super-addizionale Irpef e far rientrare Roma nei canoni dell’ordinario: almeno per il fisco locale.