Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2019
A tu per tu con Giuseppe Pignatone
C’è un imperativo che torna per tutto l’incontro con Giuseppe Pignatone: rispettare le regole. E ogni volta che il Procuratore di Roma lo richiama, la erre di questo siciliano di Caltanissetta, con 45 anni di carriera tra Palermo, Reggio Calabria e la capitale, è tutta un rotacismo. Come a marcare un legame con l’isola fatto di «memoria, nostalgia». Ma soprattutto affetti, visto che c’è un pezzo di Sicilia che ha sempre portato con sé. «Litografie di Bruno Caruso, regalo di mia madre». Ma quando si gira, realizza che sono state già staccate. Sulla boiserie dell’ufficio, non ci sono più «mostri arborei», né alcun quadro. Alle spalle del Procuratore che ha allontanato ogni nebbia dal porto di Piazzale Clodio – illuminando le consorterie mafiose e «la corruzione di Roma, il principale problema» – ora c’è solo un crocifisso e le bandiere italiana ed europea. Il trasloco è iniziato. Verso una nuova fase della vita, «difficile da immaginare. Sarà una sorpresa; senza però dimenticare».
Il 9 maggio, a 70 anni, andrà in pensione. E l’unica certezza per questo magistrato, appassionato di Sciascia e Manzoni, come del commissario Montalbano, «è il ritorno a Palermo, dopo aver superato una tentazione romana». Palermo con le sue contraddizioni, la violenza stragista e il maggior successo dello Stato nella repressione alle mafie. «Un successo nel rispetto delle regole, come non sempre è avvenuto. Ne va dato atto alla magistratura siciliana, che tante colpe, ma anche tanti meriti ha avuto».
Da parte di un uomo di legge, può sembrare una tautologia quel richiamo alle regole, che era quasi un’ossessione per Leonardo Sciascia. Ma è la storia a ricordare come «davanti alle grandi minacce sia stata ricorrente la tentazione di aggirarle o ignorarle. Rispettare le regole può significare imputati assolti anche quando nei giudici c’è la certezza morale della colpevolezza». Parole cruciali, in tempi di rischio di populismo giudiziario e attacchi per sentenze non in linea con un «presunto indistinto sentimento popolare», secondo il monito del capo dello Stato. Tempi di twitter, che lasciano ai Tribunali l’onere delle complessità. E questo incide nell’erosione della fiducia dei cittadini, registrata dalla Scuola superiore della magistratura. «I magistrati non devono cercare consenso», scandisce Pignatone. E quando con un impulsivo «certo» concordo, sorride: nella mia memoria si sovrappongono volti, richiami e polemiche. La percezione della Giustizia ha subìto molte oscillazioni negli ultimi decenni, vissuti blindati da chi ho di fronte: la stagione del tritolo, dei corvi, dei cortei e dell’immagine salvifica dei pm. Fino all’attuale distacco, misto a insofferenza. «Forse c’è stanchezza, ma il fatto che la magistratura non sia più protagonista assoluta, come negli anni delle stragi e di Tangentopoli, è positivo, perché non ci sono più quelle forme estreme di patologia».
Né protagonista, né chiusa nella torre d’avorio. Anzi, il Csm sollecita una corretta comunicazione. Il cono d’ombra della Calabria fu il grande alleato della ’ndrangheta; illuminarlo fu la prima sfida di Pignatone, alla guida dei pm reggini. In risposta, gli lasciarono un bazooka. Al contrario, in questi sette anni a Roma, «tutto è stato amplificato». Ma al di là delle città, «i magistrati, che non sono una categoria compatta, devono cercare di spiegare quel che fanno e perché lo fanno. Non per autodifesa, ma perché in democrazia il controllo da parte dell’opinione pubblica è fondamentale». Un richiamo in cui c’è la consapevolezza che «l’attività giudiziaria, anche senza volerlo, incide sulla politica e su interessi economici, visto che molti punti di crisi vengono riversati sul tavolo delle toghe».
Tre volte l’incontro è interrotto da urgenze. È quasi sera e piove su Roma. Piove sulle periferie in rivolta e i rifiuti in fiamme; sul progetto del nuovo stadio e le accuse di tangenti; piove sul Campidoglio in fibrillazione. Su Ostia e le piazze di spaccio h24; piove sull’aula del processo Cucchi. Piove su Piazzale Clodio, che ha dimostrato che la Suburra non è mai sparita. «Sulle forme di corruzione c’è l’imbarazzo della scelta. Come spesso succede dove c’è la sede del potere politico». Capitale corrotta=nazione infetta, titolò una copertina dell’Espresso del 1955. «Da un lato c’è il classico do ut des, con il sistematico non rispetto delle regole; dall’altro una corruzione organizzata, o addirittura mafiosa. I processi indicano fenomeni significativi e, al di là degli esiti, offrono dati di conoscenza della realtà». Dietro ogni astrazione, ci sono riferimenti concreti. E proprio la «corruzione, insieme alle attività delle organizzazioni mafiose» è stata determinante nell’inchiesta Mondo di mezzo, il ciclone Mafia capitale che ha influito sulla vita politica. Archiviate le polemiche, è «con approccio laico» che Pignatone ripete che «Roma non è Palermo: non abbiamo mai detto che è dominata dalle mafie; è stato un equivoco creato da alcuni, non tutti in buona fede. Ci sono presenze di mafie tradizionali, che si occupano di narcotraffico, riciclaggio e di attività imprenditoriali lecite. Poi ci sono associazioni diverse da quelle meridionali che, come ha confermato la Cassazione, vanno qualificate mafiose. E altri gruppi dediti ad attività criminali». Negli anni, Roma aveva rimosso gli indizi che già la rendevano «città aperta anche per le mafie». Pignatone ora li elenca, dopo averli analizzati nel saggio Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi (Laterza), scritto con il procuratore aggiunto Michele Prestipino, con cui ha condiviso ogni sede e che avrà la reggenza, in attesa del nuovo capo. Uno dei due temi, a cui opporrà il silenzio. («Dietro ogni parola, qualcuno metterebbe un nome, per favorirlo o più possibilmente per danneggiarlo»).
Davo per scontato che non ne avrebbe parlato. Per tutta la chiacchierata, in cui mi offre un bicchiere d’acqua e un cioccolatino, ci dilunghiamo invece sulla linea della palma (definizione con cui Sciascia indicava l’avanzata delle mafie al Nord Ndr), sul «pugno nello stomaco di certe immagini», sulla mancata collaborazione degli imprenditori. Intercettazioni, come quella dell’Antimafia di Venezia – «Per fare il mafioso, devi essere un potente imprenditore» – rendono evidente come siano proprio «gli imprenditori a essere chiamati a un’assunzione di responsabilità. Ma non credo che le cose siano cambiate rispetto a quando Ilda Boccassini lamentava che non c’era la fila, per denunciare». Nelle sue parole, non c’è il pessimismo del capitano Bellodi de Il giorno della civetta, ma la speranza della fede, per cui «se ognuno fa qualcosa, si può fare molto», citando padre Pino Puglisi. Rendere non convenienti i patti scellerati è diventato lo snodo di ogni lotta alla mafia, soprattutto da quando nel 2010 l’indagine Infinito-Crimine ha diffuso la consapevolezza del radicamento della ’ndrangheta al Nord. «Sono stati fatti passi significativi, ma evidentemente le black list non sono sufficienti. Fa riflettere il recente riciclaggio di soldi sporchi da banche europee. La sanzione reputazionale funziona poco, persino nei confronti di condannati, per mafia e per corruzione».
L’ostracismo dura poco più dell’indignazione mediatica e nelle cronache tornano gli stessi personaggi. Come quando a Palermo svelarono il rinnovato asse con la Cosa Nostra di New York nell’operazione Old Bridge, evocata sulla parete da un collage di ritagli. Poco distante, la foto della conferenza stampa a Milano dopo i 300 arresti tra Lombardia e Calabria. Quell’indagine sancì l’unitarietà della ’ndrangheta, con una «lezione di umiltà. Le certezze – commentò lo storico John Dickie – possono essere rovesciate in ogni momento». In fondo, «le mafie sono organizzazioni segrete in evoluzione e la conoscenza – ricorda Pignatone – arriva dall’interno, con i collaboratori di giustizia o le intercettazioni. Di sicuro, sulla consapevolezza del cittadino più di cento pagine ha effetto la pubblicazione di immagini come l’omaggio al capo o la riunione dei boss a Paderno Dugnano», documentati dall’inchiesta Infinito. E questo chiama in causa la stampa.
Mentre parla emerge la natura filologica di certe indagini, che non prescindono da contesto, codici semantici e da un’attenzione per la parola, che non trovavo dai tempi dei miei studi. Così anche la torta di un boss di Tor Bella Monaca può svelare un mondo, con il disegno di un rolex, pistola e banconote. «Poteva sembrare folklore, era molto di più». Allo sguardo di esperti. Da qui, l’importanza della squadra per Pignatone, che da vent’anni ha accanto Prestipino, ma ha anche collaborato in più sedi con alcuni investigatori, con cui «si è affinata la fondamentale conoscenza delle realtà mafiose. E devo ringraziare i vari corpi di appartenenza, che decidono le destinazioni». La squadra, che è l’opposto dell’eroe solitario: «Non esiste, è una comodità per gli altri, perché fa ricadere su uno le responsabilità; e un alibi per lui, che si dà per sconfitto in partenza».
La stanchezza si legge sul viso dell’interlocutore, a cui rivolgo un ultimo spunto. Richiamo ancora Sciascia sull’antimafia, ma scuote la testa. Ecco il secondo silenzio: «Non parlo di processi in corso». Tra tanti, ci sono soprattutto il caso Montante (ex presidente di Confindustria Sicilia arrestato) e la vicenda Saguto (ex presidente delle Misure di prevenzione di Palermo, a processo per la gestione dei beni tolti ai mafiosi). «È vero che il sistema dei sequestri va migliorato, ma attenzione a non perdere uno strumento prezioso. Abbiamo intercettato a Roma quasi le stesse parole ascoltate 15 anni fa a Palermo: cosa peggiore della confisca dei beni non ce n’è». Nessuna retorica, ma regole.