Corriere della Sera, 14 aprile 2019
Intervista a Giuseppe Vita
Una sera intorno all’inizio del Millennio, a cena con Helmut Kohl a Berlino, Giuseppe Vita ricevette dall’ex cancelliere una confidenza che lo fece sobbalzare. Ricordavano insieme la caduta del Muro, quel 9 novembre 1989 in cui i tedeschi furono il popolo più felice della Terra. Kohl era in vena, si lasciò andare, rievocando quei momenti fatali e rivelando anche che tutto aveva rischiato di precipitare.
«Mi raccontò che quella notte ricevette una telefonata di Michail Gorbaciov, preoccupatissimo. Chiedeva notizie, perché i suoi generali da Potsdam, dov’era il comando delle truppe sovietiche, volevano l’autorizzazione a schierare i carri armati ai varchi del Muro per domare un’insurrezione. Kohl lo supplicò di non farlo, spiegandogli che c’erano centinaia di migliaia di persone in festa per strada, che sarebbe stata una strage. Per fortuna riuscì a convincerlo. I blindati non arrivarono e una folla entusiasta si riversò verso Ovest. Il genio di Helmut Kohl è stato di capire che in quel momento si apriva una finestra unica e irripetibile per la Germania».
Quella notte Vita l’aveva vissuta in prima persona. Era a Berlino da due anni, il radiologo di Agrigento arrivato in Germania nel 1962 con una borsa di studio e diventato manager per caso. Pochi mesi prima, dopo averne guidato con successo la divisione farmaceutica, era stato nominato presidente e amministratore delegato della Schering Ag, uno dei pilastri del sistema Germania. Mai prima di lui un italiano era salito tanto in alto nell’impenetrabile gotha del capitalismo renano.
Lei quel 9 novembre prese una multa.
«Si, la tengo ancora nel portafogli».
Cosa successe?
«Quando abbiamo appreso dalla televisione le prime notizie, proposi ai miei figli di andare a uno dei varchi del Muro. Ne scegliemmo uno non troppo affollato, quello sulla Invalidenstrasse. Ma lo stesso abbiamo dovuto parcheggiare lontano, non c’era un posto per chilometri. Era una notte speciale. Così lasciammo l’auto davanti a un passo carrabile. Siamo entrati a Berlino Est, abbiamo applaudito quelli che venivano verso Ovest. Poi dopo alcune ore siamo tornati indietro. Ma qui la sorpresa: neppure la Storia impediva alla Germania di funzionare».
In che senso?
«C’erano due poliziotti davanti all’auto che scrivevano il verbale, avevano già chiamato il carro attrezzi. Mi scusai. Furono gentili, mi spiegarono che li aveva chiamati l’autista di un camion bloccato dalla mia auto. Pagai subito i 20 marchi della multa. Spostai l’automobile. E in quel momento vidi uscire l’autosnodato. Sulla fiancata c’era scritto Schering Ag. Era uno dei nostri mezzi che partiva per le consegne. Non ho mai pagato così volentieri una contravvenzione».
Vita lasciò la guida operativa della Schering nel 2001, diventandone presidente del Consiglio di Sorveglianza. Ma appena un anno dopo cominciò la sua seconda, grande avventura tedesca: Friede Springer e il giovane amministratore delegato Mathias Doepfner lo vollero infatti al vertice dell’organismo di controllo della Axel Springer Verlag, la più grande casa editrice d’Europa. Per 17 anni ne ha garantito il rigore finanziario, in una fase di drammatici cambiamenti nel mondo dei media. Ora, alla vigilia dei suoi 84 anni, Vita lascia il vertice di un gruppo in grande salute e soprattutto attrezzato per le sfide del domani. Il suo regalo d’addio sarà martedì prossimo un dibattito sul futuro dell’Europa, con tre protagonisti d’eccezione: Romano Prodi, il presidente del Bundestag Wolfgang Schaeuble e l’ex ministra francese Sylvie Goulard.
«La cosa più importante è aver riconosciuto sin dall’inizio l’importanza della digitalizzazione e aver puntato con convinzione sulla rete. Oggi il digitale rappresenta quasi l’80% del nostro fatturato e ci dà l’85% degli utili. Quando sono arrivato eravamo a 2,5 miliardi di fatturato, oggi siamo a 3,5. Quello che purtroppo non siamo riusciti a fare è il salto in Borsa dal MDAX al DAX, cioè fra le prime trenta aziende tedesche. Schering era nel DAX30 e mi sarebbe piaciuto portarci anche la Springer».
Ma lei in un’azienda da DAX30 c’è stato, anche se in Italia come Presidente di Unicredit dal 2012 al 2018. Se a Berlino era l’italiano in Germania, a Milano era il tedesco in Italia. Com’è stata quell’esperienza?
«La proposta di Unicredit fu del tutto inaspettata. Quando mi chiamarono gli head hunter rimasi sorpreso. Forse avevo il curriculum giusto, ma avevo 77 anni: “Non vorranno mai un vecchietto”, risposi. Non contattai nessuno. Alla fine eravamo rimasti in tre. Mi dissero che dovevo lasciare tutti gli altri incarichi. Dissi che andava bene, tranne che per Axel Springer, volevo onorare l’impegno preso con la Signora Friede. Alla fine scelsero me. Pesarono anche i contatti che avevo in Germania».
Qual è stata la cosa più difficile rispetto al modo di operare in Germania?
«La gestione di un Cda poco omogeneo, troppo ampio e molto occupato da questioni regolamentari e burocratiche. Riunioni continue, anche due volte al mese, alla presenza dei rappresentanti della Bce o della Consob. Poco tempo per parlare d’affari. Quando sono arrivato aveva 23 membri, una pletora. Ricordo tanti consiglieri in sala che passavano ore a compulsare il cellulare. Quando sono andato via eravamo scesi a 15. Ma siamo anche riusciti ad allentare l’influenza diretta o indiretta della politica, che ha sempre cercato di far pressione sulla banca. Oggi comunque Unicredit, grazie al lavoro prima di Federico Ghizzoni e ora di Jean Pierre Mustier, è solida e può guardare con ottimismo al futuro».
Lei è stato per anni un tassello fondamentale del rapporto tra Italia e Germania. Due anime convivono nel suo cuore, come direbbe Goethe. Cosa non capiamo dei tedeschi?
«Che la Germania è come un grande transatlantico, lento a muoversi all’inizio: ha un piano di navigazione, ha previsto tutto, caricando a bordo dal cibo alle casse da morto. Ma quando è partito non si ferma più. Il problema è il cambio di rotta, quando è necessario: deve scontare un’enorme forza inerziale».
È per questo che blocca l’Europa?
«Io stimo moltissimo la Germania e i suoi dirigenti. In Europa poteva giocare un ruolo decisivo, specialmente dopo la caduta del Muro quando, dopo le prime incertezze, ha avuto l’aiuto e la disponibilità degli alleati europei per riunificarsi. Abbiamo tutti contribuito, non solo politicamente, alla riunificazione tedesca. Mi sarei aspettato, cosciente della sua nuova dimensione e dell’importanza del ruolo, che si facesse promotrice di una maggiore integrazione europea, che invece non c’è stata. E questo è un mio grande rammarico».
Qual è il problema dell’Italia?
«L’Italia ha una debolezza intrinseca legata alla sua incapacità di fare sistema, a una classe politica che tende a prendere sottogamba o a non mantenere gli impegni. In più siamo schiacciati dal debito pregresso che ci taglia le gambe. Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma non ne abbiamo la forza perché ogni anno paghiamo 80-90 miliardi di interessi, risorse che vengono sottratte agli investimenti».
Lei ha conosciuto cancellieri, presidenti, leader di tutta l’Europa. Chi sono quelli che l’hanno impressionata di più?
«Una persona eccezionale era Helmut Schmidt, nessuno come lui conosceva il mondo, la Cina per esempio. La sua curiosità intellettuale era straordinaria. Oppure Richard von Weiszaecker, figura gigantesca nella Germania del Dopoguerra, suo padre era stato diplomatico sotto il nazismo, da ragazzino vide Jesse Owens trionfare alle Olimpiadi di Berlino umiliando Hitler. Fu il presidente della Repubblica che per primo disse ai tedeschi che il giorno in cui finì la Seconda Guerra Mondiale fu quello della liberazione non della sconfitta».
E in Italia?
«Di Sandro Pertini ho un bellissimo ricordo. Mi ha anche ricevuto al Quirinale».
C’era una ragione particolare?
«Sì. A quel tempo ero capo della Schering in Italia e Pertini, che soffriva di stipsi, usava regolarmente un farmaco prodotto da noi, il Normacol. Telefona un giorno personalmente al centralino. “Qui è il presidente Pertini, chi è che comanda da voi?”. “Il capo è Vita”, gli dice la centralinista. “Me lo passi”. Insomma non trovava il Normacol a Selva di Val Gardena. Gli dico che glielo posso fare avere entro 24 ore. Quando lo riceve chiama per ringraziarmi e mi dice, quando viene a Roma venga a trovarmi, la invito a pranzo. Dopo un po’ di tempo mi richiama: ma come, le avevo detto di venire a trovarmi! Io dico che pensavo fosse una frase di cortesia. No, insiste lui, quando dico una cosa, è quella. Posso portare la mia famiglia? Porti chi vuole, però me lo deve dire perché devo dare ordini alla cucina. Così è stato, sono andato con moglie e figli a pranzo al Quirinale. Siamo arrivati con un’ora di anticipo».
Giuseppe Vita, il prussiano venuto dal Sud, è l’ottavo di 14 figli, sette fratelli e sette sorelle. Una famiglia grande, d’altri tempi, ora sparsa nel mondo, che ancora oggi ogni estate si ritrova nella casa al mare sulla costa agrigentina. Tra figli e nipoti, ogni cena vede sedute a tavola quasi 80 persone.
Lei è di casa ad Agrigento, a Milano, a Berlino. Dove si trova più a suo agio?
«Ovunque sono stato mi sono sempre sentito e mi sento a casa mia. Sono orgoglioso di essere italiano, siciliano ed europeo. Mi hanno offerto la cittadinanza tedesca, ho detto di no. Parafrasando Mitterrand, “l’Italia è la mia patria, l’Europa il mio avvenire”. Quando venni nominato capo della Schering, la BZ titolò in prima pagina: Vita alla guida di Schering col passaporto europeo. Lo scrissero perché a quel tempo, nel 1989, era impensabile che un italiano salisse al vertice di una grande azienda tedesca. Quell’espressione a me è piaciuta. Ecco, sogno un vero passaporto europeo».