14 aprile 2019
APPUNTI SULLA LIBIA
MASSIMO CHIARI, AVVENIRE 14/4 –
Cento morti, di cui 28 bambini. Cinquecento feriti, di cui 200 minori. È il bilancio, sempre più tragico, dei primi dieci giorni della guerra “a bassa intensità” scoppiata in Libia. Non solo: secondo il presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi) Foad Aodi «in questi ultimi mesi, oltre 1000 bambini e minorenni sono stati utilizzati nei combattimenti e, temiamo, lo siano tuttora. Hanno da 14 a 17 anni e sono provenienti dalla Siria, dal mercato delle immigrazioni e da famiglie molto povere libiche che vengono ricattate dai combattenti». Secondo le Nazioni Unite, circa 13.500 persone sono state sfollate dall’inizio degli scontri. Sul terreno, si continua a combattere. Le forze militari fedeli al governo nazionale guidate da Fayez al-Sarraj hanno lanciato una controffensiva sul fronte sudovest. Sarebbe stata respinta l’offensiva delle forze di Khalifa Haftar a Suani Ben Adem e decine di miliziani sarebbero stati arrestati. Gli scontri hanno scatenato una nuova corsa alle stazioni di rifornimento di benzina. «Combattiamo per la nostra terra, per tutti i libici. Per questo sino ad oggi siamo ancora rimasti sulla difensiva: anche i soldati di Haftar sono compatrioti », ha fatto sapere il generale Abuseid Shwashli, fedele a Sarraj.
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ROBERTO BONGIORNI, IL SOLE 24 ORE –
Se la Libia fosse in mano ai libici, e solo loro portassero avanti i negoziati, forse non saremmo a questo punto. Se le tribù avessero svolto quel ruolo di primo piano che dovrebbero avere, la situazione sarebbe meno compromessa. Ma la Libia non appartiene solo ai libici. Non del tutto. E le tribù, parte essenziale del tessuto sociale libico, da tempo sono state messe ai margini nel processo di transizione. L’ex regno che il rais aveva governato con il pugno di ferro per 42 lunghi anni, usando sapientemente una strategia del divide et impera è, in parte, nelle mani di potenze straniere che si contendono la reciproca sfera di influenza. La Libia diviene in questo contesto l’ultimo teatro di confronto regionale molto duro.
Gli accorati appelli di Usa, Ue, ma anche di Russia e Emirati affinché vengano deposte le armi restano per ora inascoltati. Se il generale Haftar continua la sua offensiva verso Tripoli, ieri ha conquistato Azizia, e non vuole sentirne parlar di tregua, probabilmente è perché non si sente solo. Gli scontri tra le sue forze e quelle del Governo di accordo nazionale, l’Esecutivo stanziato a Tripoli e sostenuto dalla Comunità internazionale, sono andati avanti anche ieri. A Suani , a soli 25 km a sud della capitale, la battaglia è stata molto violenta.
Stupisce fino a un certo punto l’inchiesta condotta dal Wall Street Journal, secondo cui il quale principe reggente saudita, il potente Mohammed Bin Salman, in un incontro a Riad, avrebbe offerto ad Haftar denaro e aiuti diretti per facilitare l’avanzata delle sue forze.
Sono ormai cinque anni che le potenze regionali sono coinvolte nel caotico teatro libico. Da quando, nell’estate del 2014, una coalizione di milizie islamiche, sostenuta politicamente dalla Fratellanza musulmana, riuscì a conquistare Tripoli. Gli onorevoli libici appena eletti (le elezioni si svolsero in giugno) fuggirono in Cirenaica, dove trasferirono il Parlamento. Già allora correva voce che dietro la conquista di Tripoli ci fosse la regia, indiretta, di Turchia e Qatar. Un sostegno, almeno politico, che ci sarebbe ancora oggi, dietro Haftar vi erano, e vi sono, Emirati Arabi ed Egitto. Due Paesi guidati da capi di Stato autoritari, nemici giurati, così come Haftar, dei Fratelli musulmani. Un movimento religioso percepito come minaccia all’esistenza di molti regimi, dall’Arabia Saudita, passando per gli Emirati, fino all’Egitto.
Non è una coincidenza che Emirati Arabi ed Egitto siano due alleati di Riad, impegnati nella coalizione militare in Yemen che combatte contro gli Houti, ribelli sciiti sostenuti dall’Iran. E non stupisce che, sempre gli stessi Paesi, abbiano deciso nel 2017 un embargo totale contro il piccolo ma ricchissimo Qatar, accusato di sponsorizzare il terrorismo internazionale. Di certo Doha appoggia la Fratellanza musulmana, ne è la cabina di regia. Ciò vale anche per la Libia e per il nuovo Governo di accordo nazionale.
La situazione appare incancrenita. Ieri 4.500 persone hanno richiesto asilo dalle aree colpite dal conflitto, ma solo per 600 è stato possibile garantire un’uscita sicura. Se la battaglia investisse il cuore della capitale sarebbe un disastro umanitario.
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VINCENZO NIGRO, LA REPUBBLICA 14/4 –
Si combatte con le armi, si combatte con la diplomazia. A 10 giorni dall’assalto della milizia del generale Khalifa Haftar a Tripoli, il governo di Fayez Serraj si è stabilizzato, ma rimane sempre sotto assedio. Ieri le milizie alleate del suo esercito sono riuscite a frenare e respingere in molte aree della città i soldati di Haftar, determinato a conquistare un avamposto nella capitale prima di un eventuale negoziato. Sono stati fatti prigionieri e riprese delle postazioni perdute. La propaganda del governo di Tripoli ha diffuso un’altra notizia sulla presenta di consiglieri militari francesi: l’esercito di Serraj ha catturato un mercenario egiziano, e questo avrebbe confessato che era stato portato al fronte su un aereo con altri egiziani e con sei consiglieri militari francesi. Forse quelli a cui i libici di Tripoli danno la caccia di giorni nella zona di Gharian.
Ma c’è una novità importante anche sul fronte politico: Serraj e i suoi ministri hanno deciso di lanciare una controffensiva diplomatica. Una manovra che in pochi giorni dovrebbe puntare al vero obiettivo: convincere l’amministrazione americana di Donald Trump, anzi "convertire" in persona il presidente americano, a sostenere il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu ma appoggiato freddamente dagli americani. Che invece, con Trump, personalmente, subiscono il fascino dell’"uomo forte", del dittatore che potrebbe rimettere in piedi un paese frantumato come la Libia. La settimana scorsa gli Usa hanno ritirato il piccolo contingente militare che avevano a Tripoli, a protezione dell’ambasciata, dando un segnale di sfiducia per Serraj. Adesso secondo una fonte vicina al governo, un contingente di forze speciali starebbe per ritornare a Misurata, la città alleata di Tripoli che per il momento non è toccata dagli scontri. Serraj ha mobilitato il suo ambasciatore a Washington Wafa Bugagis, e sta per spedire da Trump l’inviato Fadel Lamin.
E quindi anche per costruire una alleanza che faccia pressione sugli Usa, domani a Roma arriva il vicepresidente libico Ahmed Maitig. È il numero due del Consiglio presidenziale, vedrà Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Moavero e quello degli Interni Matteo Salvini, con cui ha un rapporto continuo. Maitig con Serraj aveva concordato anche di proseguire la sua missione in altre due capitali europee: Londra, dove ha studiato dopo la laurea a Parma, e poi Berlino. Ma in Gran Bretagna e Germania probabilmente andranno altri inviati di Serraj, per evitare di tenere il vicepresidente per troppo tempo fuori dal paese.
È possibile che in Italia il numero due libico incroci anche un altro inviato straniero, il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed Al Thani. È il cugino dell’emiro Tamim, è vicepremier, ma soprattutto è coordinatore delle politiche per la Libia. Anche lui incontra Conte lunedì.
Fonti del governo italiano spiegano il perché degli incontri accettati con Tripoli e Doha: « Il tentativo è quello di frenare tutte le parti, bloccare l’offensiva militare di Haftar di convincere tutti a raffreddare qualsiasi opzione militare«. Rafforzare Serraj, ma fermare la guerra. Il Qatar è il primo paese potenzialmente pronto a finanziare la resistenza di Fayez Serraj all’attacco di Haftar. Mentre l’Arabia Saudita ha pagato milioni di dollari al generale di Bengasi, già da anni il Qatar ha finanziato molte milizie di Tripoli, di Misurata e direttamente il governo ufficiale di Libia. E avrebbe già ripreso a farlo.
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LORENZO CREMONESI, CORRIERE DELLA SERA 14/4 –
Gli sfollati in fuga dai quartieri dei combattimenti arrivano in ordine sparso al centro di accoglienza nella scuola elementare Shuhada al Furnaj. Siamo a una decina di chilometri dal fumo e il fracasso delle bombe. In genere sono gruppi famigliari con tanti bambini piccoli. Spesso il padre o uno zio, comunque un uomo di casa in grado di usare un’arma, resta di guardia nell’abitazione abbandonata. «Temiamo i saccheggi da parte degli stessi combattenti nei due campi», dice tra i tanti Sadeg Mathi, 35 anni, appena scappato qui con la moglie e otto figli. Un suo fratello rischia la morte sotto le bombe, però è rimasto nascosto in cantina a vigilare contro le bande di ladri, spesso in uniforme, che operano nella terra di nessuno.
Nella scuola sono accolti dalle organizzazioni giovanili e i comitati di quartiere, che offrono cibo, coperte e materassi per tutti. Dall’inizio dell’offensiva delle forze militari di Khalifa Haftar il 4 aprile sono ormai più di 14.000 i civili delle periferie meridionali della capitale che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni. Secondo l’Onu oltre 4.000 dall’altro ieri. La grande maggioranza trova rifugio presso famigliari e conoscenti. Circa 900 sono invece stati ospitati nelle scuole e gli edifici pubblici messi a disposizione dalla municipalità.
Costituiscono il termometro delle sofferenze provocate da un conflitto che pare abbia già causato oltre cento morti, tra cui una trentina di bambini. E tutto per ora lascia credere che i combattimenti siano destinati a intensificarsi. Ieri a mezzogiorno in prossimità della zona della battaglia nel quartiere di Ain Zara, una quindicina di chilometri a Sud del centro città, abbiamo visto transitare una colonna composta da almeno trenta pick-up sormontati da mitragliatrici pesanti delle milizie di Tripoli e Misurata. Poco dopo i comandi militari del governo del premier Fayez Sarraj hanno confermato il successo di una controffensiva che avrebbe costretto le forze di Haftar ad una parziale ritirata.
Nel frattempo l’aviazione di Tripoli ha lanciato alcuni raid contro i mezzi di sostegno alle forze di Haftar in arrivo dalla Cirenaica verso la cittadina di Gharian, un centinaio di chilometri a Sud della capitale. In risposta, i caccia di Haftar hanno compiuto almeno tre bombardamenti mirati in 24 ore. Sono azioni che confermano quanto i due fronti stiano ricevendo aiuti dai loro partner stranieri. A Tripoli gira con insistenza la notizia (però non confermata da fonti indipendenti) della presenza di consiglieri militari francesi a Gharian. Intanto non sono giunte smentite alle rivelazioni due giorni fa del Wall Street Journal circa il forte sostegno finanziario e bellico che Haftar avrebbe ricevuto da Riad per lanciare l’offensiva. Nel frattempo, anche le forze di Misurata starebbero ricevendo nuovi aiuti militari via mare e aerea da Qatar e Turchia.
Una concentrazione di armi e incoraggiamenti dall’estero alla guerra che non favorisce certo l’apertura alla ripresa del dialogo. L’ennesimo segnale per cui la via della diplomazia resta bloccata arriva da Bengasi, dove ieri si è riunita la settantina di deputati della Camera dei Rappresentanti di Tobruk (antagonista del parlamento di Tripoli). E qui il presidente della Camera, Aguila Saleh, nell’esprimere il pieno sostegno all’offensiva di Haftar ha anche ribadito che «le prossime elezioni nazionali si terranno solo dopo che Tripoli sarà stata liberata dalle milizie dei terroristi».
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AMEDEO LA MATTINA E FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 14/4 – Quello che i militari sul campo sostengono da giorni ha trovato un riscontro che, se confermato, inchioderebbe l’Eliseo. La Francia aiuta Haftar nel suo tentativo di espugnare Tripoli, e lo fa con propri specialisti dispiegati sul suolo libico. La confessione arriva da un mercenario egiziano (Il Cairo è un sponsor del generale assieme a Emirati e Arabia Saudita), catturato durante i combattimenti con in mano un bottino di preziosi frutto del saccheggio in un’abitazione ad Ain Zara. L’uomo, secondo quanto riferisce «Libya Observer», avrebbe confessato che si era imbarcato su un volo in partenza da Benina, l’aeroporto di Bengasi e diretto a Jufra. «Lo stesso dove erano a bordo 14 libici, 30 egiziani e sei consiglieri militari francesi». La notizia, se trovasse riscontri, spazzerebbe via ogni dubbio sul comportamento di Parigi, sconfessandone le reiterate dichiarazioni sulla totale estraneità all’offensiva del generale del 4 aprile. Il sodalizio Francia-Haftar, spiegano fonti informate, trae la sua forza dal fatto che «assieme hanno combattuto la lotta contro il terrorismo». Secondo Parigi il conflitto è provocato soprattutto «dal ritardo nel processo politico e nell’assenza di elezioni. Sarraj non ha legittimità politica».
La rivelazione andrebbe a pesare sullo sforzo diplomatico in atto per fermare l’escalation, a partire dall’intreccio di consultazioni che vede Roma al centro di movimenti. Oggi e domani il vicepremier e ministro degli Esteri del Qatar, Al Thani, è impegnato in un bilaterale col premier Conte e, al contempo, il vicepresidente libico Ahmed Maetig, sarà sempre nella capitale: vedrà Conte e il ministro degli Esteri Moavero. Difficile un contatto con Salvini impegnato a Milano e Monza ma non è escluso si sentano al telefono. Sul dossier libico nel governo italiano vi sono sensibilità diverse. Il nodo è il ruolo della Francia nella guerra in Libia. Conte usa la diplomazia, dice di non avere motivo di pensare che Parigi non abbia interesse alla stabilità. «Una Libia instabile – sostiene – non può certo consentire alla Francia di perseguire eventuali interessi economici nazionali. Nel passato sono stati commessi errori di cui non consentiremo la ripetizione». Salvini è d’altro avviso. Non crede alla buona fede di Macron e pensa che l’unico modo per costringere le parti a trovare un’intesa sia quello di fermare le milizie di Haftar alle porte di Tripoli, sostenendo Maitig.
Conte chiede la massima compattezza del governo. Sta lavorando per scongiurare quello che ha definito «un serio e concreto rischio di una crisi umanitaria». L’Italia si muove come un Paese «facilitatore del processo di stabilizzazione e pacificazione dell’intero territorio», spiega il premier. Ma Salvini non accetta lezioni, «tira dritto» anche di fronte alle parole della ministra della Difesa Elisabetta Trenta che in un’intervista al «Corriere della Sera» gli consiglia di «metterci la testa: inutile fare i duri e andare allo scontro. È bene che il governo rimanga unito e tutti i ministri si muovano con intelligenza e compostezza». Parole che hanno molto infastidito il capo del Carroccio. Trenta aveva mosso le sue critiche venerdì sera durante la riunione convocata dal presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. «Se Salvini non vuole un arrivo massiccio di profughi di guerra dalla Libia, deve evitare il muro contro muro con la Francia», avrebbe affermato Trenta. Concetti e parole che sono arrivate all’orecchio del destinatario che ieri ha precisato: «Non cambia nulla sulle politiche migratorie per l’Italia». «In Italia – ha aggiunto Salvini – si arriva con il permesso. Coloro che scappano dalla guerra arrivano in aereo come stanno facendo. Ma i barchini, i gommoni o i pedalò nei porti italiani non arrivano». Ed è ritornato ad attaccare la Francia: «Speriamo che tutti i Paesi occidentali facciano lo stesso e non ci sia qualcuno che, come in passato, gioca alla guerra per interessi economici. In passato la Francia lo fece e speriamo che non stia ripetendo lo stesso scherzetto perché poi ne pagano le conseguenze».
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CRISTIANO TINAZZI, IL MESSAGGERO 14/4 –
Dopo un paio di giorni di sostanziale equilibrio, ieri l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar ha sferrato un attacco a sud di Tripoli conquistando la cittadina di Aziziyah, ma una violenta e veloce controffensiva da parte delle milizie legate al Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Serraj ha permesso dopo poche ore la sua riconquista.
Ripreso anche il quartier generale della 4ª Brigata e il centro città. Il contrattacco ha tagliato in due le forze del generale Haftar, rimaste isolate nella zona di Al-Swani. L’esercito Nazionale Libico sta tentando di rompere l’assedio utilizzando bombardamenti aerei e razzi BM-21 Grad. Brutte notizie arrivano anche dalle retrovie, dove i rifornimenti dall’est del Paese faticano ad arrivare. Solo ieri sono stati intercettati dalle forze GNA otto camion a sud di Sirte. L’UNHCR intanto ha fatto sapere che monitora con apprensione l’area di Qaser Ben Gashir, poco distante da Al-Swani. Lì si trova uno dei centri di detenzione per rifugiati e migranti.
L’organizzazione internazionale aveva già cercato di far spostare i migranti a Zintan ma non avevano voluto muoversi. E proprio la città di Zintan con le sue milizie, seconde per potenza solo a quelle di Misurata, potrebbe creare non pochi problemi alle forze di Haftar aprendo un nuovo fronte. La città, da sempre in pessimi rapporti con Misurata (nel 2014 venne allontanata da Tripoli), si è schierata in buona parte a difesa della capitale.
BOMBARDATA UNA SCUOLA
I bombardamenti aerei intanto continuano da entrambe le parti: da segnalare il primo strike compiuto sulla cittadina berbera di Zuwarah, alleata di al-Serraj. Obbiettivo un campo militare. Bombardamenti anche a ovest, a Tajoura. Colpita la base militare di Rahbet Al-Deroua. E un altro strike dei caccia del generale ha rischiato una strage di bambini colpendo per errore una scuola ad Ain Zara, 15 km a sudovest di Tripoli. La scuola, fortunatamente, era chiusa. Secondo il presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi) Foad Aodi, che in queste ore è in contatto con medici libici in vari ospedali, sarebbero cento i morti - tra i quali 28 bambini - e oltre cinquecento i feriti registrati in Libia dal quattro aprile ad oggi. «Gli ospedali in Libia sono al collasso e sono triplicate le richieste di operare in Italia i bimbi feriti» afferma Aodi. «Da quanto mi stanno riferendo i colleghi medici dalla Libia si registrano numerose persone ferite che sono ancora nelle proprie case e la situazione è drammatica perché manca sangue e materiale chirurgico negli ospedali per effettuare gli interventi necessari. C’è il rischio di una crisi umanitaria ed epidemie se non vengono curati i feriti».
Un aereo dell’Esercito Nazionale Libico è atterrato nella città di Bani Walid, per evacuare parte dei militari feriti in combattimento. Secondo fonti mediche diversi sarebbero stati portati in Tunisia. Migliaia gli sfollati: l’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha riferito che sono circa diecimila le persone scappate dalle zone di combattimento.
Problemi anche sul fronte della produzione petrolifera: Mustafa Sanallah, direttore della National Oil Corporation (NOC) ha messo in guardia sulla possibilità di avere ripercussioni simili a quelle subite nel 2011 anno nel quale la produzione petrolifera scese ai minimi storici.
La diplomazia intanto continua a muoversi nel tentativo di porre fine ai combattimenti e risolvere quella che è per il Paese la più grave crisi dopo la guerra del 2011. Il vicepremier e ministro degli Esteri del Qatar (Paese in linea con Italia e Nazioni Unite nel sostegno al governo di Tripoli), Sheick Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, sarà nelle prossime ore a Roma per incontrare lunedì il premier Giuseppe Conte.
GLI INCONTRI
Al Thani potrebbe vedere anche il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Atteso sempre per lunedì anche il vice premier libico Ahmed Maitig che a sua volta inconterà Conte. Al momento però non si intravedono vie d’uscita: il generale Haftar non può permettersi una sconfitta sia sul piano militare che su quello internazionale e tornare al tavolo dei negoziati in questo momento lo vedrebbe in una posizione di svantaggio.
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GIANLUCA DI FEO, LA REPUBBLICA 13/4 –
Sono le ore decisive per la battaglia di Tripoli. In otto giorni di combattimenti l’armata di Bengasi non è riuscita a sfondare le difese. E la guerra lampo lanciata dal generale Haftar rischia di trasformarsi in una battaglia casa per casa, che potrebbe provocare un massacro e segnare il fallimento dei suoi piani. Per questo il Signore della Cirenaica sta chiedendo un ulteriore sostegno ai suoi alleati.
Non ha bisogno di soldi, perché è stato finanziato con generosità da emiratini e sauditi. Non ha bisogno di intelligence, perché da tempo conta sull’aiuto dei francesi. Gli servono uomini addestrati in grado di rovesciare la situazione sul campo. E glieli può fornire solo la Russia.
Due giorni fa l’entourage del Generale ha diffuso la notizia della sua presenza a Mosca «per incontrare funzionari di alto livello del Ministero della Difesa». Le autorità russe hanno risposto con una dichiarazione sibillina: »Il ministero degli Esteri non ha tale informazione». Ma Haftar era realmente in Russia. Grazie a Flightradar, il sito che monitora il traffico aereo, Repubblica ha ricostruito il suo volo di ritorno in Libia: è decollato dall’aeroporto di Mosca, dove il suo jet era parcheggiato in un’area defilata, per atterrare a Bengasi alle 6 e un quarto di ieri pomeriggio. Ha utilizzato lo stesso Falcon con cui - come ha rivelato Repubblica suo figlio Saddam giovedì 4 aprile si è recato a Parigi, cercando di ottenere il consenso dell’Eliseo all’assalto finale. E con cui l’altro figlio lunedì scorso ha raggiunto Roma per discutere con il premier Conte una possibile tregua.
L’esito della missione moscovita sarà determinate per le sorti del conflitto. Da tempo è stata segnalata a Bengasi l’attività di contractor russi, che finora si sono limitati ad istruire le truppe del generale: se dovessero schierarsi in prima linea, il loro intervento potrebbe essere risolutivo. A difendere Tripoli ci sono le brigate di Misurata, sovvenzionate dal Qatar, con gli unici soldati esperti presenti in Libia: sono riusciti a spazzare via lo Stato Islamico dal Paese. Ma non è detto che Mosca sia favorevole all’escalation. Molti degli alleati di Haftar, a partire dalla Francia, cominciano a temere che l’offensiva possa segnare l’inizio della sua fine. Il Generale ha 75 anni e numerosi problemi di salute, se non ottenesse una vittoria rapida tutto il suo sistema di potere potrebbe sfaldarsi. Aprendo una fase di caos più profondo. È la stessa preoccupazione di parte dell’amministrazione americana, che finora è rimasta alla finestra, senza far pesare il rapporto privilegiato tra il presidente Trump e quello egiziano Al-Sisi, altro grande sostenitore del Generale.
Palazzo Chigi cerca di sfruttare questa situazione di stallo per convincere Haftar a riprendere le trattative. L’Italia è al fianco del governo Serraj, l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma dialoga con tutti i protagonisti della crisi. La nostra intelligence si sta muovendo senza sosta per spingere comandanti libici e sponsor arabi ad accettare una tregua.
Per il Generale è duro rinunciare alla vittoria: sa che non avrà una seconda occasione. Per abbattere l’imprevista resistenza sta impegnando i suoi reparti migliori, incluse le forze speciali della brigata Rada addestrate dai russi. E cerca di sfruttare la superiorità della sua aviazione, che ieri ha intensificato i raid. I caccia hanno colpito più volte le difese di Tripoli, bombardando l’aeroporto internazionale e la periferia della città. E’ stata bersagliata pure una base nella zona di Zuwara, a pochi chilometri dalle installazioni dell’Eni. Ma per sconfiggere i guerrieri di Misurata non bastano le incursioni dal cielo. Ed entro l’inizio della prossima settimana si capirà se Hafar ha ottenuto i rinforzi e riuscirà a entrare nella Capitale. O se accetterà di venire a patti, fermando il massacro.
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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 13/4 –
«Questi pick-up sono nuovi, anche le mitragliatrici sono di recente fabbricazione». Abdel Bas Shiwa mostra il bottino delle ultime vittorie messe a segno dalle forze di al Serraj ai danni dei miliziani di Haftar. Una parata di mezzi e armi tirate a lucido, «cache di munizioni arrivati in questa parte della Libia poche settimane prima dell’offensiva su Tripoli ordinata dal generale».
I rilievi sul campo giungono lo stesso giorno in cui funzionari sauditi hanno rivelato al «Wall Street Journal» che Riad si era impegnata in finanziamenti milionari per sostenere la marcia su Tripoli da parte di Haftar. «L’Arabia saudita ha promesso di pagare decine di milioni di dollari per contribuire a finanziare l’operazione», riferiscono le fonti spiegando che l’offerta è giunta «giorni prima» dall’inizio delle ostilità, il 4 aprile, e alla visita che il generale ha compiuto a Riad il 27 marzo incontrando re Salman bin Abdulaziz Al Saud. Ed è sempre di ieri la notizia, diffusa da media libici, di due aerei cargo provenienti dagli Emirati rilevati dai satelliti sulle piste dello scalo di Bengasi. Sebbene non vi siano conferme sui contenuti dei velivoli, la notizia desta timori, perché interpretata come una sorta di catena di rifornimenti a sostegno delle attività belliche di Haftar in Tripolitania, proprio nel momento in cui il generale e i suoi alleati stanno perdendo spinta.
Lo confermano i pick-up sequestrati dal 1° battaglione di Zawia comandato da Shiwa, tutti rigorosamente Toyota beige maculato e tutti con pochi chilometri. «Adesso - spiega - li pitturiamo di nero e li usiamo noi». L’offensiva di Haftar sulla città a 40 chilometri ad ovest di Tripoli è stata per ora arginata così come in altri punti caldi del risiko che ha tenuto banco nei giorni passati. Uno di questi è Ain Zara il punto di scontro più vicino al centro di Tripoli: è li che ci troviamo mentre un convoglio militare giunge ad alta velocità. Un combattente scende con fare deciso dall’ultimo mezzo, è vestito di nero, ha il volto coperto e imbraccia un kalashnikov. Ferma il traffico per far passare mezzi pesanti diretti a rinforzare le trincee di prima linea, mentre un checkpoint blindato segna il punto di non ritorno.
In lontananza si sentono sporadici scambi di fuoco, mentre l’artiglieria pesante resta silenziosa in questo sobborgo della capitale. Diverso è il clima in altre aree alle pendici di Tripoli, come l’aeroporto internazionale bersagliato dall’aviazione di Haftar, così come Wadi Rabea e Tajiura dove è stato distrutto un cache di armi del Gna. Nella notte tra giovedì e venerdì, invece, colpi di artiglieria di Haftar hanno raggiunto un’area abitata a Suwani provocando vittime tra i civili.
I dispacci dal fronte segnalano tuttavia una novità assoluta, l’allargamento della linea di fuoco nell’estremo ovest del Paese, a Zuwara città a ridosso del confine tunisino popolata prevalentemente dalla minoranza berbera degli Amazigh, da sempre ostile al generale. I caccia della Cirenaica hanno raggiunto il campo di Abdel Samad, non lontanissimo dall’impianto Eni di Mellitha. «Le attività a Mellitah proseguono regolarmente. - spiega la società che gestisce la struttura in joint venture con la Compagnia petrolifera nazionale (Noc) - Le azioni militari di cui si è parlato sono avvenute a più di 25 chilometri di distanza dalle strutture operative ed erano dirette ad una vecchia caserma delle milizie di Zwara». Per alcuni si tratta di arrembaggi approssimativi, tentativi di allargare il cerchio e disorientare attuati da un’armata (quella del generale) che sta mostrando limiti e che forse è in attesa di rinforzi e rifornimenti provenienti da fuori.
Da Bengasi si fa sentire il procuratore militare del Lna con un ordine di arresto a carico di Serraj, del vicepremier Omar Maetig e di altri esponenti civili e militari di Tripoli, considerati autori di «gravi crimini». Ordine che arriva nel giorno in cui il presidente del consiglio per i Diritti umani dell’Onu, Coly Seck, afferma che l’uso di minori-soldato, come quelli catturati dalle forze governative, «è un crimine inaccettabile». Accuse che si sono sollevate ieri da piazza dei Martiri a Tripoli, quella della rivoluzione, dove migliaia di persone si sono radunate sventolando il tricolore libico e gridando la loro rabbia contro il «traditore Haftar» e i suoi alleati, «Francia in testa».
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MARCELLO SORGI, LA STAMPA 13/4 –
L’incubo di un’ondata di profughi in cerca di salvezza dalla guerra in Libia, ai quali non si potrebbe certo opporre la linea dei “porti chiusi”, si è materializzato ieri a Palazzo Chigi nel vertice convocato dal premier Conte con i ministri degli Esteri Moavero Milanesi e della Difesa Trenta. È una delle incognite, forse la peggiore, determinata dall’emergenza, e niente affatto scongiurata dalla debole mediazione che il governo sta tentando tra Haftar e Serraj, i due avversari sul territorio, come Conte ha spiegato giovedì in Parlamento. Che Salvini sia consapevole e molto preoccupato lo si è capito dalle allusioni fatte dal ministro dell’Interno a chi, celandosi dietro affermazioni di pace, punterebbe in realtà a incoraggiare la guerra e a favorire la vittoria di Haftar, giunto ormai con le sue truppe assai vicino a Tripoli. Che il leader leghista si riferisse alla Francia, era abbastanza chiaro. E che - malgrado le smentite di Macron - la Libia possa funzionare per Salvini come scintilla per incendiare la campagna elettorale per le Europee di argomenti sovranisti anti-Eliseo, è abbastanza intuibile, anche se una divisione della maggioranza giallo-verde su un argomento così delicato rischierebbe di ostacolare i tentativi diplomatici di rimettere la situazione sotto controllo e il fin qui mancato (anche perché frenato da Macron) intervento complessivo dell’Europa sullo scenario libico.
Rispetto al 2011, quando Berlusconi, che s’illudeva di aver costruito un rapporto solido con Gheddafi, fu trascinato per i capelli a partecipare all’attacco contro il rais libico dall’iniziativa francese di Sarkozy, nella situazione attuale ci sono alcuni aspetti simili e altri diversi. Simili, appunto, ancorché meno espliciti, sono l’interesse francese nell’area, così come il rischio per l’Italia, paese dirimpettaio, di pagarne le conseguenze peggiori, non solo in termini di flussi migratori, ma di effetti economici negativi (basti solo pensare al ruolo e alla presenza dell’Eni in Libia). Diversi, per non dire assenti, sono i ruoli di Stati Uniti e Russia, che sembrano aver già capito che la continuazione della guerra potrebbe danneggiare l’Europa, oltre all’Italia: niente affatto un guaio, dai rispettivi punti di vista di Trump e Putin.
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FIORENZA SARZANINI, CORRIERE DELLA SERA 14/4 –
La maggior parte vive ammassata nei centri di detenzione dove l’acqua e il cibo sono sempre più scarsi. Altri sono stipati negli edifici e nelle baracche sulla costa. E poi ci sono i detenuti stranieri. Tutti in attesa di riuscire a liberarsi e partire. L’intensificarsi dei combattimenti per la conquista di Tripoli rende più concreto e drammatico il pericolo che la catastrofe umanitaria coinvolga direttamente l’Italia. Perché è nel nostro Paese che i profughi cercheranno di arrivare in qualsiasi modo, con qualsiasi mezzo. I rischi su quel che potrà accadere sono stati più volte evidenziati dall’intelligence nei report riservati consegnati in queste ore al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma anche nel corso dell’audizione di fronte al Copasir del direttore dell’Aise — l’agenzia per la sicurezza all’estero — Luciano Carta. E paventano la possibilità che ci siano almeno 6.000 stranieri determinati a imbarcarsi pur di sfuggire all’inferno libico. Tra loro moltissime donne e bambini. Senza tralasciare i rischi legati al terrorismo, il pericolo che la guerra civile scateni una nuova offensiva dei gruppi legati all’Isis.
Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri tra emissari del governo italiano e le due parti in conflitto. Il dialogo è sempre rimasto aperto sia con il presidente del governo riconosciuto Fayez al Sarraj, sia con il generale Khalifa Haftar in una posizione «dove tutti — viene sottolineato — sono a conoscenza del nostro operato e soprattutto dell’attività di mediazione che cerchiamo di portare avanti, consapevoli che un conflitto provocherebbe conseguenze disastrose non soltanto nell’area, ma anche negli Stati del Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia». Ecco perché il nostro Paese continua a porsi come interlocutore in un’attività di mediazione che al momento trova «sponda leale nella Germania». E se il trascorrere delle ore fa aumentare il rischio di guerra, la tela che si sta tessendo serve a tentare di mettere in sicurezza le aziende che operano in Libia, tenendo conto che soltanto alcune hanno deciso di evacuare il personale. Ma soprattutto perché appare più che mai necessaria la protezione dalle interferenze estere. Non a caso durante la riunione urgente che si è svolta venerdì a palazzo Chigi è stata ribadita la volontà di tenere fede a tutti gli impegni presi anche dai governi precedenti, compresa quell’autostrada che deve attraversare la Libia. Un affare che confermerebbe il ruolo chiave dell’Italia nella gestione delle «commesse».
Con il conflitto in corso e le milizie impegnate a difendere le postazioni, il controllo del territorio inevitabilmente rimane appannaggio della criminalità. Ma è pur vero che senza gli aiuti «esterni» — vale a dire finanziamenti e approvvigionamento dei mezzi — organizzare le partenze in queste ore appare complicato. Ecco perché «i trafficanti di uomini stanno cercando di organizzarsi nel reperimento di barche e gommoni», in modo da prepararsi al trasporto dei profughi in fuga. Una situazione che lo stesso Conte ha ben presente, non a caso ha ribadito di voler «coordinare ogni iniziativa», comprese quelle legate all’arrivo delle navi nei porti italiani. Ieri il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha voluto ribadire la «linea dura» ma appare pressoché scontato che — in caso di guerra — potrebbe essere necessario non soltanto autorizzare gli sbarchi e prevedere corridoi umanitari. Ai 6.000 profughi che sono già chiusi nei centri e nelle prigioni, bisogna infatti aggiungere altre migliaia di persone che erano giunte dal deserto proprio per intraprendere il viaggio verso l’Europa. Senza tralasciare — è questa l’altra incognita — la capacità della Guardia costiera libica di tenere sotto controllo quel tratto di mare, ma soprattutto la certezza che Tripoli certamente non possa essere considerato «porto sicuro».
Secondo le informazioni a disposizione dell’Aise, «Haftar può contare su un esercito composto da 25 mila persone, tra loro anche molti ragazzini». Ma con l’avanzare verso la capitale può avere problemi logistici, le ultime informazioni giunte dal campo parlano di «numerose “tecniche” — i pick up utilizzati dai soldati ed equipaggiati con le mitragliatrici — rimaste ferme perché senza carburante». Proprio su queste difficoltà si cercherà di fare leva a livello diplomatico per cercare di scongiurare il conflitto finale. L’intelligenceevidenzia nei dossier «la presenza tuttora massiccia di gruppi presenti nel Paese e direttamente collegati all’Isis, determinati a sfruttare la situazione di caos, pronti a trasformare la Libia nella nuova Siria».
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ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO 14/4 –
Se non è defunto, è già colpito al cuore il tentativo di Giuseppe Conte di evitare che anche la guerra in Libia diventi terreno di scontro elettorale tra la Lega e i 5Stelle. Il premier venerdì ha istituito il gabinetto di crisi, ha chiesto «unità, compattezza», ha invitato tutti a «evitare slabbrature e voci dissonanti». Meno di 24 ore dopo, però, Luigi Di Maio e Matteo Salvini tornano a bisticciare. E questa volta soltanto su un’ipotesi, anche se decisamente allarmante: l’eventuale emergenza umanitaria, una nuova ondata di sbarchi sulle nostre coste, che potrebbe essere innescata dalla guerra civile a Tripoli.
Tutto comincia da una dichiarazione del premier. Questa: «C’è il serio rischio che si sviluppi una crisi umanitaria che sfinirebbe una popolazione già provata da otto anni di instabilità. E la Libia, da Paese per lo più di transito di migranti dall’area subsahariana, diventerebbe un Paese di partenza delle migrazioni. Questo metterebbe a dura prova un sistema di accoglienza che ancora non funziona a livello europeo».
Passano un paio d’ore e Salvini infrange la regola del silenzio (imposta da Conte su richiesta di Di Maio proprio per lui), sui temi libici. «Emergenza umanitaria? Non cambia nulla per le politiche migratorie per l’Italia», è l’esordio del ministro dell’Interno. Segue l’affondo: «In Italia si arriva con il permesso, coloro che scappano dalla guerra arrivano in aereo come stanno facendo. Ma i barchini, i gommoni e i pedalò in Italia, nei porti italiani, non arriveranno». Concetto ribadito dal viceministro dell’Economia, Massimo Garavaglia: «Per fortuna abbiamo chiuso i porti. E ora resteranno chiusi a maggior ragione».
Siccome il tema è delicato e i sondaggi raccontano che è decisamente impopolare tifare per l’accoglienza, anche se riguarda chi fugge alle guerre, tra i 5Stelle nessuno reagisce ufficialmente. Ma da palazzo Chigi fanno sapere: «Se c’è una guerra, non si parla più di migranti economici per i quali è giusto chiudere i porti, ma di rifugiati con diritto d’asilo e a quelli in base al diritto internazionale non puoi negare l’accoglienza». Sulla stessa linea la Farnesina: «Chi fugge dalla guerra diventa immediatamente un rifugiato e gli va concesso l’asilo. Però in caso di emergenza, di flussi anomali e improvvisi, in base ai trattati europei deve scattare la ripartizione obbligatoria degli esuli tra tutti i Paesi dell’Unione». Obbligatorietà in passato violata da Polonia, Ungheria e Slovacchia per le quali scattò la procedura d’infrazione.
Ma c’è dell’altro. C’è che nel governo la tensione sulla Libia tra 5Stelle e Lega è massima. Ecco Di Maio: «Il dossier libico è di competenza di Conte, della responsabile della Difesa Trenta e del ministro degli Esteri Moavero. E non serve che Salvini incontri Maitig», il vicepremier libico. Ed ecco Elisabetta Trenta: «Non servono prove di forza e non serve fare i duri per avere i titoli sui giornali. Qui bisogna avere la testa, non la testa dura». Di parere diverso Moavero che, in base a ciò che filtra dalla Farnesina, vede in modo positivo l’impegno di Salvini nei dossier libici. Tanto più perché questi riguardano settori di competenza del Viminale: il terrorismo e la questione dei migranti.
L’intesa tra Esteri e Interni però si ferma qui. Anche Moavero, al pari di Conte, non apprezza che Salvini sia tornato a cannoneggiare la Francia. Primo, perché il premier e il responsabile degli Esteri lavorano «per spingere Parigi fuori dall’ambiguità». Secondo, perché dopo la crisi diplomatica di febbraio superata solo grazie all’intervento del Quirinale, palazzo Chigi ritiene utile evitare un’escalation di tensione con l’Eliseo. Salvini, alleato della Le Pen, però se ne infischia e anche ieri ha attaccato Macron.
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ALESSANDRO ORSINI, IL MESSAGGERO 12/4 –
Il generale Haftar ha attaccato la città di Tripoli senza giustificazioni alla sua scelta. Ha semplicemente dichiarato che il governo di Tripoli è nemico della Libia e ha avviato le operazioni militari. Difficile immaginare un’aggressione più smaccata, tanto più che il governo di Tripoli è nato sotto l’egida delle Nazioni Unite e che, proprio mentre Haftar annunciava l’attacco, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si trovava a Tripoli per un incontro con il premier Sarraj.
Gli Stati Uniti, Guterres e persino la Nato hanno condannato l’attacco di Haftar, che però non si è fermato. E così il governo Conte si è domandato come sia possibile che Haftar continui ad avanzare, nonostante le più grandi potenze del mondo gli chiedano di arretrare. Per ottenere risposta, il governo Conte ha ideato uno stratagemma diplomatico. Dal momento che sono tutti d’accordo sul fatto che Haftar è responsabile di un’aggressione immotivata, l’Italia ha chiesto all’Unione Europea di approvare un documento di aperta condanna contro l’agguerrito generale ed è poi rimasta in attesa di vedere quale Paese avrebbe eventualmente posto un veto. Quel Paese - salvo ripensamenti successivi - è la Francia.
Salvini è giunto così alla conclusione che Macron sta difendendo Haftar e gli ha fatto sapere che, se la Francia vuole giocare alla guerra, l’Italia non resterà a guardare.
Molti pensano che le parole del vicepremier Matteo Salvini siano figlie di un temperamento, ma non è questione di personalità. Nelle parole di Salvini c’è un discorso sullo Stato. Occorre infatti sapere che ogni Paese ha una propria linea rossa che non può essere valicata. Gli americani utilizzano l’espressione «interesse strategico vitale» per indicare i comportamenti che gli Stati stranieri devono evitare per non incorrere nella reazione della Casa Bianca.
La Siria è interesse strategico vitale per la Russia; il controllo delle alture del Golan è interesse strategico vitale per Israele; impedire ai curdi di creare uno Stato nel nord della Siria è interesse strategico vitale per la Turchia ed è interesse strategico vitale dell’Arabia Saudita che l’Iran non acquisisca la bomba atomica.
Allo stesso modo, Salvini sta chiarendo che la Libia è interesse strategico vitale per l’Italia e questo ci porta all’assedio di Tripoli che, se cadesse, finirebbe sotto il controllo del generale Haftar, a sua volta controllato dalla Francia. Appare evidente, dall’analisi dei combattimenti in corso e delle armi impiegate, che il peso militare ed economico di Haftar è pari a quello di un granello di sabbia. Ne consegue che, una volta conquistata Tripoli, che è addirittura più debole dei suoi assedianti, Haftar non avrebbe alcuna possibilità di governare la Libia in modo libero e indipendente, come invece assicura nei suoi comunicati.
Tra Haftar e la Francia si verrebbe a creare lo stesso rapporto che esiste tra Putin e Assad, dove il primo assicura al secondo il diritto di poter dire: «Io sono». Questo, almeno nel breve periodo, non sarebbe, per forza di cose, un male per l’Italia, verso cui Haftar sarebbe tutt’altro che ostile. Il bisogno di denaro e di sostegno politico per stabilizzare il suo potere traballante lo renderebbero incline a ogni gesto di riguardo verso Roma.
Il problema è che la conquista di Tripoli sarebbe un male per la Libia che, con ogni probabilità, non assisterebbe alla fine della guerra civile, ma a una sua prosecuzione con nomi e protagonisti diversi, tanto più che Haftar ha 75 anni: l’inizio della crisi di successione sarebbe questione di ore, non di ere. La politica internazionale è fatta soprattutto di forze oggettive, che sono rappresentate da tutti quegli elementi non modificabili dalla volontà individuale, tra cui figura anche l’età anagrafica.
Il segretario generale dell’Onu sta chiedendo insistentemente ad Haftar di fermarsi non perché preferisca Roma a Parigi, ma perché sa bene che le poche forze del generale non sono sufficienti a unificare la Libia, semmai a dividerla ulteriormente. In sintesi, ad Haftar mancano i soldi, un buon esercito e anche buoni protettori. aorsini@luiss.it
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STEFANO AGNOLI, CORRIERE DELLA SERA 13/4 –
Che la principale posta in gioco in Libia restino le installazioni petrolifere, il controllo della compagnia di Stato Noc e della Banca centrale che gestisce la liquidità prodotta dalla vendita di greggio e gas, è da sempre evidente. Non è un caso che il numero uno della Noc, Mustafa Sanalla, abbia lanciato ieri l’allarme al Financial Times, sostenendo che il Paese si trova a fronteggiare la più grande minaccia dal 2011, cioè dalla caduta di Gheddafi. Senza produzione, senza quelle entrate e senza l’elettricità il Paese sprofonderebbe nel baratro. E il prezzo internazionale del petrolio potrebbe subire contraccolpi al rialzo. Nella realtà, assicurano però gli uomini delle compagnie che operano su suolo libico, al momento l’operatività non sarebbe stata toccata (malgrado la notizia di un attacco aereo ieri a Zuwara, a 25 chilometri dal terminale gas di Mellitah). Gli scontri sono limitati alla capitale, minacciata da sud, sudovest ed est, mentre il petrolio e il gas continuano a essere estratti e a scorrere come nelle ultime settimane, con le diverse infrastrutture «protette» dalle milizie e pagate dalla compagnia di Stato. Con la situazione militare ormai in stallo (con i reparti di Misurata e Zintan il premier Sarraj potrebbe contare su circa 1.500 mezzi vari contro i 560 di Khalifa Haftar, le cui file sono nutrite da molti mercenari e che si trovano assai lontane dalle loro basi dell’est) rimane l’interrogativo di fondo sulle ragioni della mossa dell’uomo forte della Cirenaica, che non riscuoterebbe l’assenso di Egitto e Emirati, suoi alleati storici. In particolare, secondo fonti diplomatiche, colpisce l’improvviso voltafaccia del generale dopo i risultati dell’incontro di fine febbraio ad Abu Dhabi con Sarraj. Un vertice voluto in particolare dagli Usa, preoccupati anche per le possibili instabilità in Algeria e in Tunisia e decisi a tornare a occuparsi del caso Libia. L’incontro negli Emirati, avvenuto alla presenza dell’ambasciatore Usa in Libia, Peter Bodde, avrebbe delineato un accordo di massima che prevedeva un passo indietro di Sarraj e la costituzione di un consiglio di presidenza con tre componenti, uno per ognuna delle regioni libiche, coordinato da un garante. Uno scenario che avrebbe dovuto costituire la base del vertice di Gadames ma che al principale sponsor di Haftar, la Francia, non sarebbe risultato particolarmente gradito.
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GERMANO DOTTORI, IL FATTO 14/4 –
Nella resa dei conti in corso in Libia si intrecciano dinamiche geopolitiche complesse. La maggior parte delle analisi si concentrano sul duello tra il presidente Serraj e il maresciallo Haftar, evidenziando come alle loro spalle si intravedano, rispettivamente, il nostro Paese e la Francia. Purtroppo c’è di più. Nella nostra ex colonia, sono entrati in crisi gli accordi di Skhirat con i quali, stante Barack Obama alla Casa Bianca, si decise di attribuire la legittimità internazionale a un esecutivo emanazione di forze riconducibili all’Islam politico. Serraj ebbe una copertura dalle Nazioni Unite, ma decisivo in suo favore fu l’appoggio degli Stati Uniti, oltre alla protezione ravvicinata di mezzi italiani e inglesi. Il “governo di accordo nazionale” in realtà non riuscì mai a stabilire il proprio controllo su tutta la Libia. Vi si sottrasse persino Misurata, baluardo della Fratellanza Musulmana libica e sede di una importante minoranza etnica turca, malgrado formalmente riconoscesse Serraj.
Rifiutarono la soluzione trovata a Skhirat tutti coloro che vi videro un pregiudizio per i propri interessi. Gli egiziani, in primo luogo, in quanto ormai ferocemente ostili all’Islam politico, ma anche i paesi del Golfo accomunati dallo stesso sentimento, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, dei quali è evidente l’impegno contro Tripoli anche in queste ultime settimane. La Francia, che aveva optato per Serraj, iniziò a remare contro. Si realizzò comunque un fragile equilibrio, con i due blocchi coagulatisi attorno a Tripoli e Tobruk che si equivalevano.
Tale situazione è però cambiata alla fine del 2015, quando anche l’Italia di Matteo Renzi si allineò a Serraj e si distanziò dalla Cirenaica, poco prima che in Egitto si verificasse l’odioso assassinio di Giulio Regeni. Si noti come di questo omicidio fosse vittima un italiano, che studiava in Inghilterra e si appoggiava all’American University del Cairo. Quando invece in Libia eravamo prossimi ai filoegiziani anti-islamisti di Tobruk, il Consolato generale d’Italia al Cairo subì un attentato di matrice jihadista mentre da Tripoli il libico Gwell ci inondava di migranti.
Ad alterare lo scenario sono state soprattutto due circostanze. In primo luogo, la freddezza dimostrata da Obama nei confronti del leader egiziano Al Sisi dopo il colpo di Stato contro il presidente eletto Mohammed Morsi che ha indotto l’Egitto dei militari ad attuare un riavvicinamento alla Russia del quale è un aspetto anche la recente vicinanza di Mosca ad Haftar.
La sconfitta di Hillary Clinton e l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump hanno poi innescato una profonda trasformazione della politica mediorientale e nordafricana degli Stati Uniti. È venuto meno l’appoggio trasversale offerto all’Islam politico da Obama e ha preso forma al suo posto un disegno di restaurazione dell’ordine intorno a due pivot: l’Egitto di Sisi e l’Arabia Saudita di re Salman e Mohammed bin Salman. Una fotografia – scattata nel 2017 a Ryad poco dopo il discorso con il quale il tycoon aveva chiesto ai cosiddetti Paesi arabi moderati di spazzare via i jihadisti – ha cristallizzato il nuovo dato geopolitico, mostrando Trump, Sisi e Salman con le mani protese su un globo luminoso.
Che il riorientamento della politica mediorientale statunitense finisse con il riverberarsi anche in Libia era inevitabile. Ci si può casomai chiedere perché il vecchio approccio obamiano sia sopravvissuto così tanto all’avvento di Trump. La spiegazione va cercata nell’esigenza americana di non indebolire un’Italia che appariva utile al contenimento dell’asse franco-tedesco in Europa. La politica di Washington nei confronti della Libia è da tempo una derivata della sua strategia europea e ha risentito di tutte le sue successive rimodulazioni, in parte a loro volta esito delle giravolte compiute dal presidente francese Emmanuel Macron negli ultimi due anni.
È purtroppo forte la sensazione che la benevolenza americana nei nostri confronti stia adesso venendo meno per effetto dell’entrata del nostro Paese nelle Vie della Seta cinesi, per quanto si sia fatto molto per cercare di attenuare le preoccupazioni americane nei confronti dell’influenza acquisita su di noi da un rivale strategico di Washington.
Se l’avanzata di Haftar godesse veramente di una benedizione da parte di Trump e se a questo cambio di cavallo da parte americana in Libia seguissero altre mosse ostili – come i dazi che potrebbero abbattersi sull’agroalimentare italiano, colpendo quasi cinque miliardi di nostre esportazioni – forse s’imporrebbe una riflessione sulle implicazioni degli sviluppi dati alle nostre relazioni con Pechino. Dobbiamo correre ai ripari, prima che sia troppo tardi.