La Stampa, 14 aprile 2019
Biografia di Arthur Miller
Era iniziato da pochi mesi il nuovo millennio, e a New York non c’era ancora un buon locale per mangiare un’autentica pizza napoletana. Ma poi, un giorno, all’improvviso, si era sparsa la voce che una famiglia campana aveva aperto un locale a Brooklyn dove veniva servita una pizza eccellente: «come mangiarla a Napoli», ci avevano riferito, «anzi meglio», aveva aggiunto il solito esagerato, adducendo un’astrusa questione di acqua e farina canadese. Decidemmo immediatamente di andare a provarla: eravamo un piccolo gruppo di golosi, composto da Giuliano Ferrara, Anselma Dell’Olio, Vincenzo Amato, il sottoscritto, mia moglie Jacquie, Arthur Miller e la sua ultima compagna, Agnes Barley. Erano stati proprio loro a insistere, incuriositi per questa novità e divertiti dall’importanza che davamo all’autenticità di quella pietanza.
Non appena arrivammo, la proprietaria del locale riconobbe Arthur Miller e cambiò letteralmente colore: si precipitò in fretta dallo scrittore, ignorando tutti gli altri. «Non può immaginare come mi senta», gli disse, «che onore avere con noi il marito di Marilyn Monroe». Fece quindi cenno che non voleva disturbarci ulteriormente e si allontanò verso la cucina, dove il marito le lanciò uno sguardo feroce, che intendeva: «Ma come ti è venuto in mente?». Fui io a cambiare discorso, chiedendo immediatamente un menù al cameriere, ma avevo una gran voglia di ridere, come tutti, a cominciare da Arthur, che sorrideva e scuoteva la testa: non doveva essere una novità.
Mentre mangiavamo la pizza, appena discreta, ci accorgemmo che il titolare del locale continuava a sbraitare con la moglie, fin quando decise di venire di persona: «Mr. Miller, le chiedo scusa a nome di mia moglie, è piena di passione, solo per questo motivo dice cose come quella: ci tengo a dirle quanto apprezziamo la sua musica». Rimanemmo tutti sconcertati, ma riuscimmo a trattenere la risata, che esplose non appena l’uomo ritornò in cucina. Fu proprio Arthur a ridere con più gusto, mentre Vincenzo diceva che forse lo aveva scambiato per Glenn Miller, morto peraltro da sessant’anni.
Racconto questo episodio perché una delle caratteristiche più sorprendenti di Arthur Miller era il suo profondo, contagioso, senso dell’umorismo. Non te lo saresti mai aspettato dall’autore di Morte di un commesso viaggiatore e Uno sguardo dal ponte, come non ti saresti aspettato l’imponenza del suo fisico e l’eleganza semplice ma ricercata: insomma era affabile, seducente, e non lasciava trapelare nulla che non comunicasse un senso di condivisione del piacere.
Ci eravamo conosciuti grazie al librettista Arnold Weinstein, forse l’ultimo, meraviglioso rappresentante della bohème newyorkese, che si ostinava ad abitare al Chelsea Hotel, dove Arthur aveva vissuto, per un breve periodo, molti anni addietro. Mi aveva combinato un’intervista e poi aveva insistito per invitarci insieme in un terribile ristorante che lui amava. Arthur ne conosceva la qualità scadente, ma voleva bene ad Arnold e non voleva ferirne l’entusiasmo. Quel primo giorno volevo anch’io fare un riferimento a Marilyn, ricordando la battuta spietata di Billy Wilder: «Il matrimonio di Joe Di Maggio con Marilyn è fallito quando Di Maggio ha capito che lei era Marilyn Monroe, quello con Arthur Miller quando Arthur ha capito che lei non era Marilyn Monroe». Non so se sia andata proprio così, ma è certo che le fragilità di quella donna meravigliosa hanno avuto un peso enorme nel fallimento del loro legame.
Non chiesi nulla a riguardo, ma osai un altro argomento tabù: il rapporto con Elia Kazan, del quale era stato fraterno amico, e con il quale era riuscito faticosamente a riconciliarsi dopo una rottura traumatica all’epoca del maccartismo. Kazan aveva confermato i nomi di nove artisti che erano stati legati al partito comunista, e quindi aveva acquistato una pagina sul Los Angeles Times per dichiarare quanto fosse giusta la lotta a quell’ideologia. Miller non era tra quei nomi, ma aveva fatto la scelta opposta, rischiando la prigione per il rifiuto di collaborare con il Comitato per le Attività Anti-Americane. Era sconcertato per la decisione dell’amico, ma in un primo momento gli disse: «Non preoccuparti di quello che penserò. Qualunque cosa tu faccia a me andrà bene, perché so che il cuore è nel posto giusto».
Tuttavia, il dolore delle persone di cui aveva fatto i nomi portò a una rottura, che generò due grandi opere: Kazan raccontò la necessità di denunciare il male in Fronte del porto e lui rispose con la caccia alle streghe del Crogiuolo. Arthur non aveva voglia di parlarne, e si limitò a dire che «Elia era un grandissimo regista, uno dei più grandi di tutti i tempi», poi, di fronte alla mia insistenza spiegò solo che avevano ripreso i rapporti quando Kazan aveva accettato di dirigere Dopo la caduta, il dramma ispirato al matrimonio con Marilyn. L’antico legame si era quindi rinsaldato quando avevano preso una posizione congiunta a favore degli scrittori dissidenti in Unione Sovietica.
Esisteva un terzo tabù, ed era il più segreto e doloroso: un figlio chiamato Daniel con la sindrome di down, nato dal matrimonio con la fotografa Inge Morath. Era scomparso dalla sua vita da quando lo aveva fatto ricoverare in un centro specializzato senza andarlo mai a trovare: lo fece soltanto in tarda età grazie alle preghiere di Daniel Day Lewis, marito di Rebecca, l’altra figlia avuta dalla Morath. C’è qualcosa di terribilmente tragico in questa vicenda, e ogni tanto nel suo sguardo affiorava qualcosa di doloroso e ineluttabile che scacciava con un nuovo sorriso.
Era orgoglioso di essere nato a Harlem, in una famiglia ebraica proveniente dalla Polonia. Aveva conosciuto il benessere e la povertà: il padre Isidoro, abituato a girare con l’autista grazie ai proventi della sua ditta di manifatture con 400 dipendenti, aveva perso tutto nel crollo del 1929 e Arthur si era messo ad aiutare la famiglia facendo il garzone in vari negozi. Molti dei temi dei suoi capolavori nascono da queste esperienze, a cominciare dal senso di precarietà e fallacia che avvolge l’esistenza in una realtà dura e spesso spietata.
Aveva qualche insospettata vanità: una volta mi raccontò dell’entusiasmo di Eugene O’Neill per Erano tutti miei figli e delle ricchissime offerte ricevute ripetutamente dalla Fox per scrivere copioni cinematografici: sembrava che avesse ancora qualcosa da dimostrare, e soffriva perché la sua produzione teatrale successiva agli anni Settanta non era elogiata dalla critica. Aveva un senso di autentica appartenenza all’ebraismo: l’unico riferimento a Marilyn che sentii è che l’Egitto ne aveva vietato i film quando la star si era convertita, accettando un matrimonio religioso.
A dire il vero parlava poco anche delle prime due mogli, sia di Mary Jane Slattery, da cui aveva avuto i figli Jane e Robert, sia di Inge Morath. Solo di Agnes parlava volentieri, e ne elogiava con entusiasmo l’arte minimalista. Aveva 55 anni più di lei, e il legame non è mai stato accettato dai figli, ma insieme avevano un’intimità persino sorprendente, e davano la sensazione che fossero davvero felici. «Una delle poche cose che ho capito è che la vita è un mistero», mi disse una sera in cui aveva voluto provare a tutti i costi un autentico ristorante siciliano, «soprattutto i sentimenti».