La Stampa, 14 aprile 2019
Il successo sovranista del Trono di Spade
C’è una lettura politica evidente nel successo planetario della serie tv «Il Trono di Spade», che riprende domani in contemporanea mondiale per l’ottava e ultima stagione: quando qualche milione di persone si appassiona tanto a un prodotto letterario non è solo show, non è solo cinema, non è solo costruzione immaginifica. Abbiamo già visto l’Occidente identificarsi in continenti fantastici negli anni ’60 e ’70, all’epoca della Terra di Mezzo o di Macondo, due suggestioni romanzesche diventate patria morale per intere generazioni. Vestirono due idee di potere molto diverse: il potere come un male in sè, da respingere e gettare nel fuoco in nome di un mite comunitarismo; il potere come obiettivo rivoluzionario, da sottomettere armi in pugno alle volontà degli umili. Insomma, le latitudini fiabesche di J.R.R. Tolkien e di Gabriel Garcia Marquez anticiparono e descrissero il mutare dei tempi con esatta precisione, e ora viene spontaneo chiedersi come mai l’immaginario collettivo si sia improvvisamente riconosciuto nei paesaggi gelati del «Trono», nel plot di un cupo dramma shakespeariano dove i buoni soccombono, oscure minacce sono alle porte ed è quasi impossibile credere a un lieto fine. Al gioco delle interpretazioni politiche si è dedicata moltissimo la sinistra spagnola di Podemos, con un saggio a più mani che ha impegnato Pablo Iglesias e tutta la sua classe dirigente un paio di anni fa. Secondo gli autori, il panorama di distruzione dell’ordine sociale che la serie mette in scena, con la minaccia del collasso di un’intera società, «ha molto in comune con il nostro pessimismo e con l’oscuro presentimento che vorrebbe la fine della civiltà occidentale» e marca un conflitto di potere sganciato da ogni morale e legittimità. Il valore contemporaneo del racconto è stato confermato dall’uso che ne ha fatto Donald Trump quando, per evidenziare il suo diritto all’imperio, annunciò le nuove sanzioni contro l’Iran e la costruzione del Muro parafrasando uno dei motti della serie: “Sanction is coming” e “The Wall Is Coming”. Tre giorni fa, Elisabetta d’Inghilterra ha fatto suonare la sigla del «Trono» dalla sua guardia reale, con un sottotesto evidente nel caos della Brexit: tranquilli, c’è pur sempre una regina. In Italia l’analisi si è fermata ai numeri (impressionanti) degli ascolti, dei budget e degli spettatori, ed è un peccato che questo racconto sia presentato solo come un kolossal fantasy perché avrebbe da dire, soprattutto a noi, moltissime cose. Il continente del «Trono» si chiama Westeros. Ai suoi estremi confini è minacciato da un oscuro e mortale pericolo. Ma i suoi sette regni, con i rispettivi re e reggenti perennemente in lotta tra di loro, pur conoscendo il rischio se ne disinteressano e respingono possibili alleanze, unica via di salvezza. La sceneggiatura, costellata da citazioni che possono facilmente essere ricondotte a Machiavelli, Hobbes, Schmitt, Gramsci e molti altri giganti del pensiero, appare come una fedele metafora del dibattito sul sovranismo, anzi come una sua incredibile anticipazione (la serie esordì nel 2011, i libri da cui è tratta sono precedenti). Tra poche settimane, domenica 19 maggio, conosceremo il destino di Westeros e quasi contemporaneamente, con le elezioni europee del 26 maggio, sapremo anche l’esito della vicenda politica che la serie rispecchia così fedelmente. Una bizzarra coincidenza. Per entrambe le scadenze, incrociamo le dita.