Corriere della Sera, 14 aprile 2019
Ernesto Galli della Loggia critica Alberto Angela
Gentile Alberto Angela, da quanto tempo non legge un libro di storia? Da parecchi anni, si direbbe, se si sta a un’intervista che lei ha dato a Repubblica qualche giorno fa. Nella quale si legge: «Quando apriamo un libro di storia troviamo date, re, battaglie, imperi e poi basta. Sfugge completamente la realtà e cioè che la storia è fatta di piccole storie. In questa serie (s’intende quella da lei curata), ogni epoca la vedremo attraverso una famiglia: ogni volume racconta di un padre, una madre, di figli, zie, ed esplora la loro vita quotidiana, i cibi, le strade, i commerci, i modi di vestire, come un padre si rivolgeva ai figli, come avveniva un matrimonio. Non è quello che tutti vorremmo sapere?».
Ma certo! Peccato che sono decenni – almeno sette od otto ma forse di più, caro Angela – che gli storici di professione che proprio degli sciocchi non sono hanno avuto le sue stesse curiosità e si sono messi a fare ricerche e a scrivere libri per soddisfarle. Ha mai sentito parlare, tanto per dire, di storia sociale, delle Annales, di storia delle donne? Pensi che negli anni 80 del ’900 l’editore Einaudi varò addirittura una collana che s’intitolava «Microstorie» e che aveva proprio il taglio che lei auspica: raccontare il micro, storie minute di vita, per spiegare il macro. E guardi che da molto tempo perfino il più triviale manuale scolastico è pieno (pure troppo) di «Gli antichi romani a tavola», di «Come si viaggiava nel Medio Evo» de «La moda e la Rivoluzione francese». E così via sociostoricizzando.
Pure troppo, ho scritto, perché vede, i re e le battaglie, anche se a lei non garbano, una certa importanza tuttavia ce l’hanno, dal momento che spesso decidono di quella cosa non proprio insignificante che è il potere: chi lo esercita, in quale modo, se con la Gestapo o con il Parlamento, con quali idee e propositi. Capisco che raccontare che cosa succedeva se uno si ammalava di peste nel Trecento appaia più avvincente (e soprattutto più adatto all’«audience» tv) che spiegare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: ma bisogna pur ammettere che senza la dichiarazione suddetta (e senza la vittoria francese nella battaglia di Valmy) anche tante cose di quelle che lei è così bravo a raccontare sarebbero andate in modo assai diverso o forse non ci sarebbero neppure mai state.
Voglio dire insomma che la divulgazione è una cosa molto importante – in specie se come il suo caso è di alta qualità, e non lo dico per farle dei complimenti di cui non ha certo bisogno – una cosa molto importante la quale proprio perciò comporta tuttavia grandi responsabilità. Ad esempio di non spacciare merce per così dire taroccata, di non far credere di raccontare chissà quali mirabolanti novità quando viceversa si parla di cose da tempo acquisite al sapere dalla ricerca professionale. Anche questo infatti – non le sembra? – alla fine è un modo per svalutare la ricerca stessa e i suoi addetti, per abbassarne l’immagine e la considerazione agli occhi dei più. Se una sua trasmissione proclama di rivelare cose mai sapute prima o quasi, di fare storia in un modo prima mai visto, che figura ci fanno i cosiddetti competenti? Che li manteniamo a fare con il pubblico denaro? si chiede la gente.
Anche la divulgazione poi dovrebbe preoccuparsi di non indulgere (addirittura fingendo poi di fare il contrario!) al conformismo culturale. Oggi questo spinge a credere che l’unica storia meritevole di attenzione sia quella cosiddetta «materiale», quella che nella sua versione più corrente ama trattare, che so, di com’era fatta un’abitazione di Pompei, di quali alimenti sono giunti dall’America o al più di come funzionava la tratta degli schiavi. Mentre la storia cosiddetta politica – la storia delle lotte accese dalle grandi visioni del mondo per decidere le forme e il ruolo del potere e delle istituzioni – sarebbe invece una noiosa e inutile anticaglia. Ho il sospetto, caro Angela, che anche lei, dopo tutto, la pensi più o meno a questo modo, e se non lei molto probabilmente la stragrande maggioranza dei suoi spettatori. Il punto è che così, però, il passato rischia di ridursi a una serie slegata di curiosità e di stranezze, a un seguito di episodi strabilianti e quasi da fiction. E che per questa via, dunque, non solo non si riesca più a vedere alcun nesso profondo, alcun quadro d’insieme, ma si finisca anche per alimentare il disinteresse per i complicati retroterra storici del presente, l’ignoranza di essi e delle complicate vicende delle nostre società. In sostanza la premessa per l’antipolitica: anche se sono sicuro che non è certo questo che lei vuole.
Con un augurio di buon lavoro.