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 2019  aprile 13 Sabato calendario

Intervista a Aleksandr Sokurov

«Potreste far venire un po’ più caldo, la prossima volta qui a Milano, così torno più volentieri. Bisogna telefonare lassù». Aleksandr Sokurov fa il regista da quando aveva 18 anni. Nato in Siberia nel 1951, figlio di un militare, ha girato per tutta l’infanzia nei territori sterminati dell’Unione Sovietica. Era il 1979 quando ha iniziato a dirigere programmi alla televisione di Gorkij, la città dove si è laureato in Storia e filosofia; poi ha studiato cinema all’istituto Vgik di Mosca. Ha avuto come mentore Andrej Tarkovskij, che lo ha difeso dai censori e lo ha aiutato a trovare il suo primo lavoro. Da allora, i censori non si sono fermati ma nemmeno Sokurov, anche se, per anni, i suoi film sono stati proibiti in patria. Fra i suoi capolavori, Madre e figlio, la tetralogia sul potere (Moloch, Taurus, Il Sole e Faust, premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 2011), il monumentale Arca russa, girato all’Hermitage; e poi i documentari, fra cui le Elegie e i Dialoghi con Solgenitsin. 
L’arte e la cultura hanno ancora un ruolo oggi?
«Un ruolo imprescindibile. Cercate di immaginare l’Italia senza la parola arte, o la Russia senza le parole musica e letteratura. Ciò che ha fatto di noi quello che siamo è la civiltà. Lo scopo dell’esistenza della società è la salvaguardia della cultura».
Succede davvero?
«Ciascuno di noi, come individuo, può avere altri scopi; ma, una volta raccolti in società, abbiamo l’obbligo di preservare e salvare la cultura. Lo sviluppo dell’arte è lo scopo dell’esistenza dello Stato. Di tutti gli stati. Non realizzare gli scopi politici, bensì salvaguardare la cultura».
Gli Stati però non sembrano sempre salvaguardarla, alzi.
«Purtroppo sì, la realtà è questa. Là dove la cultura cade nell’oblio, la lotta politica infierisce».
Qual è il rapporto fra arte e potere oggi?
«Penso che i problemi della cultura siano gli stessi, in Europa e in Russia. A tutti noi mancano sostegni finanziari per la cultura».
La cultura è ancora in pericolo, anche nelle democrazie?
«Il pericolo più grande è nella popolazione, nei nostri connazionali. Moltissimi concittadini passano il tempo a leggere cose stupide, a guardare cinema commerciale, a trascorrere il tempo libero nei centri commerciali. Il popolo sta abbandonando la propria cultura, la sta rinnegando».
Vede ancora censura, oggi?
«Sì, penso che per i giornalisti sia più difficile lavorare, in Europa occidentale, perché molti temono di affrontare temi dolorosi, importanti. E questo per la teoria del politically correct, che ha portato un colpo mortale alla capacità analitica dei media».
E lei personalmente?
«Io non soffro per la censura o per la pressione, in Russia. Spesso affermo cose drastiche sulla politica in Russia, ma non c’è pressione sui miei film da parte dello Stato».
Meno male...
«Sì, però i miei film spesso non li fanno vedere. Quindi consideri lei se sia una forma di censura da parte dello Stato... Ci sono poi anche forme di censura religiosa, di cui risente lo sviluppo della cultura, e delle scienze umanistiche».
Di quali fedi o Paesi parla?
«In Russia è un dato di fatto. Ed è nota la pressione islamica nei confronti della libertà dell’arte e della cultura».
Lei è stato censurato per anni nel suo Paese. Perché?
«L’ideologia sovietica esistente divergeva dai miei principi estetici. Direi che non avevo idee politiche palesemente opposte o diverse: la differenza sostanziale con il sistema sovietico era etica ed estetica. Era una questione di principio. Spesso lo dimentichiamo».
Che cosa dimentichiamo?
«Oggi per noi i costrutti etico-estetici sono affrontati in tesi di dottorato, o ricerche, ma in realtà sono alla base della vita. Si può creare un’opera perfetta esteticamente, ma orripilante dal punto di vista etico. È ora che solleviamo la questione».
Ha detto che le persone hanno «paura della responsabilità» e che a molti «piace essere costretti» dal sistema...
«Il sistema di controllo non era solo riferito alla Russia. È il sistema che solleva l’individuo dalle responsabilità personali: e questo accade anche nei Paesi europei. Molti ancora rimpiangono la prevedibilità che caratterizzava il sistema comunista».
Tutto sembrava sicuro?
«Tutto poteva essere previsto in quel sistema, e spesso la gente cerca proprio la prevedibilità, perché ti fa sentire al sicuro dai cataclismi. È normale».
La cerchiamo ancora?
«Ne abbiamo sempre bisogno, ieri, adesso e domani. Tutti. Perché è una via retta e chiara, che non riserva svolte misteriose».
Ha incontrato Solgenitsin. Che persona era?
«Mi era vicino. Per me era importante poter parlare con lui e avere le risposte alle mie domande. Potevamo addirittura stare in silenzio, comprendendoci l’un l’altro. Una meraviglia».
Com’è stato conoscerlo?
«Lo definirei la bontà umana. E quando ero con lui mi chiedevo: se è una persona così aperta e comprensibile, perché la lingua delle sue opere è così complicata? Ha vissuto una vita difficile e affrontato prove dure, ma non si è mai incattivito».
Nel suo Nel centro dell’oceano (Bompiani) dice che la sua è stata «una lotta, contro me stesso e contro un avversario terrificante: lo Stato sovietico». Come si vince?
«Non saprei. Per prima cosa, il destino deve preservarti da una morte prematura. E tutto il resto dipende da quello che accade: se non perdi l’interesse per la vita e per le persone hai ancora una chance di vivere».
Il suo ultimo film Francofonia ha per sottotitolo Un’elegia per l’Europa. L’Europa è minacciata?
«Senza dubbio. L’Europa non riesce a difendere la propria eredità. L’Europa si è dimenticata le sue responsabilità verso la religione cristiana e la varietà delle sue culture. E soprattutto l’Europa si è dimenticata i propri errori catastrofici: perché gli orrori sono nati da qui, dal cuore dell’Europa».
Che cosa dovremmo fare?
«Dirò, per la centounesima volta, che l’Europa ha l’obbligo di salvaguardare la propria cultura nella sua diversità europea. E che questa deve essere difesa anche dalla espansione etnica».
Per questo il suo nuovo film parlerà della Seconda guerra mondiale?
«È piuttosto una riflessione sul perché sia accaduto, quale catena di errori abbia portato al fatto che centinaia di milioni di persone siano morte. Perché prima i politici sbagliano ma, poi, le persone muoiono. Parliamo già di Terza guerra mondiale, ma non abbiamo ancora seppellito i morti della Seconda. È un errore. È ottusità».