il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2019
Adolescenti oltre il gender
Non esiste la bacchetta magica. Nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere simile al membro naturale, ma con sensibilità pressoché nulla. L’erezione non ci sarà, a meno che non venga inserita una protesi biocompatibile. Orinare in piedi resterà con ogni probabilità un sogno. Poi ci sono le cicatrici, le possibili complicazioni e, ancora più difficile da pensare, la scelta consapevole della sterilità, perché, una volta eseguito l’intervento, tornare indietro è impossibile. L’intervento è la “riassegnazione chirurgica del sesso”, l’operazione che, per legge, prevede la modifica (o meglio “l’adeguamento”) degli organi sessuali. Transizione, in gergo tecnico: da donna a uomo (FtM, Female to Male), come in questo caso.
“Il risveglio comincia con due parole, sono e ora. Poi ciò che si è svegliato resta disteso un momento a fissare il soffitto, e se stesso, fino a riconoscere Io, e a dedurne Io sono ora”. Così scrive Christopher Isherwood, nell’incipit del suo romanzo Un uomo solo.
“Bisogna sempre partire dal dramma che sta alla base di una decisione così drastica come è il percorso di transizione, che può portare fino all’intervento chirurgico. La convinzione di appartenere all’altro sesso è precoce, permanente, senza diventare, però, un’idea di tipo delirante o ossessivo”, spiega la professoressa Laura Scati, psicologa e psicoterapeuta. La prima fase, quella in cui si affaccia la “disforia di genere”, va dai 4 ai 12 anni d’età. Tra i 12 e i 18 anni, nella maggioranza dei casi, scompare, ma quando così non è si passa a quella definita dagli esperti “fase diagnostica estesa”. Seguendo un percorso di terapia psicologica, si inizia la soppressione – reversibile totalmente – della pubertà, con le iniezioni di triptorelina, e si interviene poi con la terapia ormonale cross-sex (reversibile parzialmente). Solo dopo i 18 anni, e dopo la pronuncia di un Tribunale, si arriva all’intervento chirurgico – irreversibile – di riconversione del sesso, o “di affermazione del genere”. Nel caso degli MtF, si tratta di tappe tutte particolarmente dolorose, un dolore che è anche fisico (e, dal punto di vista della scienza, con risultati con meno garanzie di “riuscita”, rispetto al percorso di transizione contrario, FtM). E proprio la triptorelina, utilizzata a partire dalla seconda fase del trattamento di persone con disforia di genere, è al centro di un dibattito in Parlamento, dopo che l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, si è espressa per autorizzarne la prescrivibilità e la rimborsabilità, a carico del Sistema sanitario nazionale.
In questi giorni sono in corso, in Commissione Sanità al Senato presieduta da Pierpaolo Sileri (M5S), varie audizioni di pediatri, psicologi e psicoterapeuti, neurologi, endocrinologi e rappresentanti del Comitato nazionale per la bioetica: tutti che si interrogano “in merito alla richiesta sull’eticità dell’uso del farmaco triptorelina per il trattamento di adolescenti con disforia di genere” (sullo sfondo del dibattito politico, si segnala la partenza ai blocchi degli opposti schieramenti sui temi gender). Ma le persone? I diretti interessati?
Voglio uscire. Non ce la faccio più. È da ottobre che entro ed esco da una stanza di ospedale. La settimana prossima è il mio compleanno. Ho contato i giorni, 12. La prima operazione, quella “demolitiva”, l’ho fatta a ottobre: mi hanno asportato le ghiandole mammarie e la pelle in eccesso, incidendomi l’areola, e, contemporaneamente, mi hanno tolto utero e ovaie. Non ho avuto molta paura, mi avevano spiegato tutto per filo e per segno. È stato importante, forse ancora più dell’inizio della terapia ormonale, però è stata più una cosa mia, intima. Sono riuscito per la prima volta a togliermi la maglietta di fronte alla mia ragazza, a non fasciarmi più il petto, a farmi toccare da lei.
So che per alcuni è l’inizio della terapia ormonale la vera “rinascita” e anche per me un po’ è stato così, ma in modo diverso. Le compresse, le punture ogni 28 giorni per bloccare il ciclo… ti consentono di non violentarti troppo, quasi di rilassarti, perché – è vero – è il tuo corpo che inizia a parlare per te: metti alla prova le tue corde vocali, conti i peli, controlli lo stato muscolare…
Il medicinale della discordia: dall’uso antitumorale al Dig
La triptorelina è un farmaco gonado-soppressore, utilizzato, per le donne, in casi di tumore al seno, e capace di bloccare la produzione di ormoni che generano il ciclo mestruale. Il costo, a confezione, è di 170-180 euro, e il dosaggio è da eseguire ogni 28 giorni. Nella scatola, una boccettina con una polverina bianca e una soluzione liquida da miscelare, due siringhe sterili di colore diverso, e un foglietto illustrativo che pare un’enciclopedia. Nei casi di disforia di genere, ha spiegato in Parlamento Luisa Galli, della Società italiana di pediatria, “la triptorelina non blocca, bensì sospende lo sviluppo puberale, e lo fa in maniera reversibile. È un farmaco che utilizziamo in ambito pediatrico già da 30 anni, per ritardare l’adolescenza in bambini e bambine che hanno una pubertà assai precoce. E finora si è dimostrato sicuro”.
Per poter accedere alla terapia a base di triptorelina, è necessaria la diagnosi di disforia di genere confermata dall’equipe multidiciplinare (composta da neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, endocrinologo, psicologo dell’età evolutiva e bioetica), un percorso non soddisfacente di assistenza psicologica, e il consenso dell’adolescente e dei genitori. In Paesi come Gran Bretagna, Usa, Olanda e Belgio la si usa già da tempo. Viene assunta al massimo per due-tre anni: solo a conclusione di questo periodo, si decide poi se continuare la strada verso l’operazione per il cambio di genere. “Diversamente da quanto alcuni hanno riportato, non ha lo scopo di cambiare l’orientamento sessuale degli adolescenti, ma di sospendere temporaneamente lo sviluppo di alcuni caratteri fisici, come barba o seno, e le polemiche in materia non giovano a nessuno, e fanno male soprattutto a chi vive questa condizione”, ha sottolineato il presidente della Federazione italiana dei medici pediatri, Paolo Biasci. Si tratta di ragazzi (in Italia parliamo di meno di 100 casi diagnosticati all’anno, ma i numeri sono sottostimati perché non tutti si rivolgono ai centri specializzati come quelli dell’Onig) “che vivono in modo difficile il momento dello sviluppo e il farmaco permette loro – prosegue Biasci – di ritardarne l’arrivo, in attesa che sia più chiaro in quale genere si sentano identificati”. Il fine è quello di allungare la “finestra di ascolto”, senza subire la sofferenza di un corpo che si sviluppa in una direzione non desiderata.
Non mi interessa il “perché” della cosa, ho sempre guardato al “come”. Sì, come tanti nella mia situazione, da piccolo ero un maschiaccio, con mia mamma che, dato che ero l’unica figlia femmina, ci teneva che mettessi la gonna, che facessi crescere i capelli… Mi ha stupito come hanno reagito i miei genitori, ci sono sempre stati. Alla fine, io non mi sento di aver cambiato sesso, io non sono diventato uomo: io lo sono sempre stato. Mi sono innamorato di lei quasi subito: la nostra storia è nata come un’amicizia, lei è riuscita a entrarmi dentro, ha visto la sofferenza. Poi, è stato molto bello dopo. Anche se difficile, soprattutto per lei. Sapevo già che avrei fatto la falloplastica. Il primo tentativo non è andato bene. Ci sono state delle complicazioni e, poi, sinceramente, non ero molto soddisfatto del risultato. Ma non è un vezzo o un capriccio, è qualcosa di più profondo. Voglio poterle dare tutto ciò che posso. Voglio darle piacere.
Posso dire oggi di sentirmi sereno. Provato e stanco, ma sereno. Cosa voglio ora? Avere la mia vita, basta. Svegliarmi la mattina senza un problema che ti assilla… le cose così, più semplici. Avere una famiglia…
Un caso ogni 9mila: numeri esigui ma in crescita
Spesso si inizia da bambini, a sfidare la “legge di gravità”. Certi giorni si gioca a fare l’Uomo Ragno, altri, ma non sempre, ci si mette la gonna, si dipingono le unghie e si gioca con le bambole. È il genere che è variante, e fluido, specie in questa età, spiegano gli esperti.
Le persone che sfidano le norme di genere sono sempre esistite, lo ha ricostruito in un brillante articolo Ruth Padawer per il New York Times Magazine. “La letteratura medica di fine Ottocento descriveva le donne ‘invertite’ come tremendamente schiette, ‘negate per il ricamo’ e con ‘un’inclinazione e una predilizione per le scienze’. I maschi ‘invertiti’, invece, sdegnavano gli sport all’aperto”. Nessuno sa perchè la maggior parte dei ragazzi si adatti facilmente ai ruoli di genere che gli vengono “assegnati”, mentre altri no. Nessuno sa perché alcuni si sentano in armonia col proprio corpo, mentre altri combattano così duramente per far corrispondere il “fuori” a quello che si sentono “dentro”. “La linea di demarcazione ce l’ha ognuno dentro di sé e dipende da come ci si sente – scrive Mary Nicotra in TransAzioni – perché io certe volte mi chiedo ‘se ero uomo anche prima dell’intervento e sentivo questa mia forte identità, allora perché ho sentito la necessità di operarmi?’. ‘Se fossi nato su un’isola deserta, sarei stato ugualmente transessuale? Avrei avuto il bisogno di operarmi?’”.