Corriere della Sera, 13 aprile 2019
Intervista a Paolo Fabbri: «Troppi superlativi»
Il semiologo, oggi, è lui. Una figura decisamente inattuale (ma non gli dispiace affatto che sia così: «Nietzsche rivendicava fieramente l’inattualità»). Il suo amico e sodale Umberto Eco lo inserì nel Nome della rosa come Paolo da Rimini, fondatore della biblioteca, e con il soprannome di «Abbas Agraphicus» per le letture onnivore e per l’avarizia nello scrivere e nel pubblicare (il suo primo saggio italiano uscì vent’anni fa).
Paolo Fabbri è stato indubbiamente un pioniere, amico di Guattari e Deleuze, frequentatore dei corsi dei mostri sacri francesi, Barthes, Goldmann, Greimas, ha insegnato a Parigi, a San Diego, a Toronto, a Santiago del Cile e a Lima, ed è stato dirimpettaio di Eco al Dams di Bologna. E a ottant’anni (mercoledì 17 aprile) non ha niente da rimproverarsi (o peggio da pentirsi), anzi.
Paolo Fabbri, perché la semiotica viene considerata oggi una disciplina di retroguardia?
«Viviamo in un’epoca di reazione contro il metodo, un’epoca che pretende di insegnare e di risolvere i problemi attraverso l’enciclopedismo di Wikipedia. La semiotica propone un orientamento di metodo, è una disciplina metodologica a vocazione scientifica».
A vocazione scientifica?
«Sì, perché esiste una scienza del linguaggio avviata nell’800 e culminata in Saussure. La forza attiva della semiotica, un po’ come il ’68, è dimostrata dallo spiegamento di resistenze che incontra. Forse è stata proprio come il ’68 che solo apparentemente è fallito ma resta una presenza politica e culturale costante e utopica».
Dicevano che la semiotica era una forza di potere utile per le carriere universitarie…
«Nell’accademia la semiotica non conta nulla. Si fa come se morto Eco, morti tutti…».
L’accusa più ricorrente è che l’eccesso di strumenti tecnici ha rovinato l’insegnamento della letteratura.
«Io trovo che se impiegati a dovere siano degli strumenti di ricerca e di scoperta. Si può insegnare la letteratura senza le nozioni minime sulla testualità e sulle organizzazioni narrative, così come si insegnano le lingue senza preoccuparsi della grammatica. In effetti al portiere d’albergo basta possedere un po’ di conversazione, ma la conoscenza della lingua è un’altra cosa».
Anche la conoscenza dell’italiano dovrebbe passare per la grammatica e la semantica.
«Noi italiani siamo diversi dai francesi, per i quali l’identità culturale coincide con la lingua. Per noi piuttosto contano l’abbigliamento, il design, la cucina, la musica. Noi non siamo così attaccati alla nostra lingua come i polacchi, gli ungheresi o i lituani, per i quali la lingua è un criterio identitario».
L’identità linguistica dei francesi viene anche dall’idea forte di Stato unitario che noi non abbiamo.
«I francesi credevano in un apparato statuale che risolveva tutti i problemi, ma non è più così. E ne sono sconvolti: perché per loro lo Stato non è più all’altezza della situazione. Si tratta di una vera crisi culturale che li pone in caduta libera anche rispetto all’Italia. Oggi non abbiamo niente da invidiare ai francesi, anche se hanno Houellebecq… E meno male che ci sono scrittori come Pascal Quignard e poeti come Jacques Roubaud. Per il resto, in Francia ritorna sempre in forme diverse il bonapartismo, come in Italia torna l’autoritarismo, anche se nella forma auto caricaturale dei sovranisti che sono pericolosi soprano di opera buffa. È l’aria che tira…».
Che aria tira?
«Tira un’aria di revisionismo. Un esempio: nel 1969 è uscito L’anti-Edipo che ha sconvolto per la critica rigorosa contro la psicoanalisi. Ebbene, oggi si va avanti parlando di Edipo e di Telemaco. Non è la semiotica che è superata, è il fatto che siamo nettamente tornati indietro: regna il principio di precauzione. In un saggio luminoso, Umberto Eco ha parlato di “passo del gambero”».
La sua semiotica della comunicazione aspirava a educare alla «decodifica» della pubblicità, della televisione, della cultura di massa, del discorso politico. Ma i risultati non si vedono…
«Dovremmo volergliene? Era l’idea di formare il gusto e la sensibilità del pubblico. Eco dimostrò che James Bond, sotto un intreccio divertente, nascondeva una feroce critica al comunismo… Se non c’è stata conversione, c’è stata però infiltrazione».
A cosa è servito?
«Tenuto conto della situazione attuale, diciamo pure che, come progetto politico-culturale, quel tipo di semiotica non è stata la sola a fallire».
Che cosa ci ha lasciato Eco?
«All’inizio Umberto analizzava i testi con grande originalità, poi ha vissuto una svolta filosofica e alla fine è diventato un grande scrittore. In realtà i romanzi servivano a Eco per affrontare problemi filosofici ostici, come lo zoccolo duro della realtà. Sarebbe molto interessante confrontare dove la sua letteratura ha risolto le aporie del suo pensiero. Ma oggi ci è vietato parlare di Eco…».
Perché ci è vietato?
«È stato lui stesso a inserire nel testamento il divieto di fare un grande convegno sulla sua opera entro i dieci anni dalla morte: dunque dobbiamo rimandare tutto a un mitico 2026, quando ci ritroveremo tutti come nella biblioteca universale del Nome della rosa».
Come se lo spiega?
«Da una parte è un sublime atto di vanità. Dall’altra credo che Umberto si ricordasse di quel che è capitato a Derrida: l’anno dopo la morte non si parlava d’altri che di lui, poi è caduto del tutto nell’oblio e oggi pochi si riferiscono a lui».
Eco temeva di essere dimenticato come Derrida?
«Probabilmente riteneva che un autore, anche se decostruzionista, non va svuotato e buttato via. Come dire: prima leggete con calma i miei libri e solo dopo potrete parlarne. Una richiesta molto seria».
Andavate d’accordo con Eco?
«Quando ancora scrivevamo insieme, litigavamo molto. Gli dicevo: inseriamo qui questa cosa. E lui: no, ne facciamo un articolo a parte. Umberto era di una produttività scientifica seriale. Da una citazione riusciva a costruire un capitolo. La citazione oggi è un problema…».
Perché?
«La citazione fa parte dell’enciclopedismo trionfante, serve a dar valore al discorso, ad abbellirlo e a rassicurare il lettore. Per Eco non era così: le sue citazioni sono delle aperture verso altro, servono a ricontestualizzare un pensiero in maniera originale e nuova. Gli americani invece usano la citazione abbondantemente».
E lei ne fa uso?
«Sì, le uso anch’io. Anzi, prima per ragioni etiche non citavo i miei libri. Poi purtroppo ho ceduto».
Anche perché lei, da buon «agraphicus», a differenza di tanti suoi colleghi preferiva centellinare le pubblicazioni.
«Barthes diceva che – guru a parte – il professore è orale e l’intellettuale è un professore che scrive. Per anni ho fatto il professore, cioè ho pensato che l’oralità fosse fondamentale e anche per questo ho avuto moltissimi studenti».
Che cosa pensa il semiologo dell’Italia di oggi?
«Siamo la cultura del superlativo, dell’esternazione e dell’iperbole enfatica che provoca emozione. Ai tempi di Pasolini e Fellini parole come “ragazzì” e “paparazzì” sono entrate nel lessico francese, poi si è imposta la “paninoteca”, oggi dall’Italia penetrano in Francia i nostri superlativi in –issimo. E poi c’è anche un abuso di prefissi del tipo: ultra-, stra-, mega-, iper-, maxi-, macro-, meta-. E “assolutamente sì”».
Che cosa significa questa diffusione del superlativo?
«È l’insofferenza al comparativo. È il trionfo della dimensione emotiva, come l’iperbole, l’apostrofe, l’esclamazione, l’appello, la parolaccia greve e l’insulto grave. Viviamo in un mondo emozionale, siamo portatori di intonazioni e prosodia più che di senso, siamo quasi tutti musicanti delle passioni, come i rapper. Tramontano invece le figure della riservatezza, dell’attenuazione, del sottinteso, dell’allusione. Anche le richieste di privacy sono urlate».
È un modo per imporre l’ego sulla scena.
«Sì, a tutti i livelli c’è un ritorno dell’io e della psicologia dell’autore. La gente va ai festival per vedere scrittori che non leggerà mai. La poesia vale se l’autore parla dei cavoli suoi… Come se esistesse solo la poesia lirica. E Ariosto dove lo mettiamo?
Non parliamo del protagonismo in politica…
«È il trionfo di un io che può permettersi di tutto. Conta l’io che dà del tu e respinge il lui e quando si trasforma in noi allora i “voialtri” non li vogliamo, vanno tenuti a casa loro. Mani pulite e piedi in casa. A proposito di revisionismo…».
Un altro marchio semiotico distintivo della nostra epoca?
«La quantofrenia, la tendenza a quantificare la realtà attraverso i sistemi di big-data. È una metodologia testualmente assurda. Prendiamo Madame Bovary e cerchiamo la parola “noia”, ma non la troviamo, eppure Emma si annoia tantissimo al punto da tradire il marito. Le statistiche lessicali sono ingannevoli, non danno il senso del testo. Per individuare un sito fascista è meglio non cercare i nomi Hitler o Mussolini, perché ce ne sono altrettanti o più nei siti antifascisti. È il senso che è diverso».
È la mania delle classifiche: quanti libri venduti, quanti ospiti alle manifestazioni, quanti spettatori, quanti «like».
«Chi di noi avrebbe mai pensato di avere sul telefonino il numero dei passi fatti, delle calorie consumate, delle proteine incamerate? È una prospettiva deformante, perché nessuno può sostenere che la quantità è più significativa e interessante della qualità».
Dunque?
«La significazione non emerge da dati del genere, così come il senso della poesia di Foscolo non emerge dal numero delle sue amanti: otto-nove e tutte con il doppio cognome… Non si finisce più. Magari poi si ignora che cos’è un endecasillabo o il decasillabo, che era usato per la poesia politica o religiosa: ricordate i versi del “Va’ pensiero”?».