Corriere della Sera, 13 aprile 2019
Intervista a Silvia Venturini Fendi
La doppia FF, disegnata da Karl Lagerfeld nel 1983, è ovunque. Come il Pequin, il tessuto a righe che voleva essere iconico tanto quanto le iniziali, nato tre anni dopo. E poi le rose. Per Silvia Venturini Fendi è un’altra «prima volta» senza il maestro (dopo la sfilata del 21 febbraio, 48 ore dopo la morte dello stilista), in questi giorni nella settimana del design. In via Solari, nella Fondazione Pomodoro, che è il quartier generale della maison a Milano, c’è «Back home», collezione in collaborazione con Cristina Celestino.
Una presenza che è assenza, dolorosa.
«È un progetto che Karl non ha avuto tempo di vedere ma che parla di lui. La nostra storia è fatta dalle donne (le cinque sorelle Fendi ndr), è vero, ma anche da quest’uomo, il sesto fratello. Mi ricordo, proprio parlando del Pequin, che era un tessuto che lui ha disegnato per una casa che stava arredando in Normandia. Si ispirò ad alcuni mobili in legno intarsiato con delle scanalature e delle righe, che scovò chissà dove. Così tutto nasceva con lui, dalle sue, vere, passioni».
Quanto le mancano le cassette stracolme di oggetti che Karl le inviava come materiale di ispirazione? E i messaggi?
«Mi mancano soprattutto questi ultimi».
E il suo lavoro?
«Tutto procede».
Resterà da sola?
«Sono scelte che non dipendono esclusivamente da me. Siamo ben rodati, la scuola di Karl ci ha insegnato ad andare avanti».
Già, uno dei pochi maestri nella moda.
«Lui è stato un grandissimo maestro, ma per me un amico soprattutto. Un punto di riferimento molto importante per la mia formazione e per questo sono serena. La verità è che non mi rendo ancora conto che non c’è più. E mi aspetto sempre di vederlo arrivare». Qualcuno le allunga un Kleenex. E lei: «No, grazie. Non piango. Lo sento molto vicino, ogni cosa giornalmente mi parla di lui».
E di questa casa cosa avrebbe scelto Karl?
«Probabilmente si sarebbe portato via qualcosa. Sarebbe stato contento, anche se a lui il passato non interessava, gli piaceva andare avanti».
Dopo nove anni a Miami, Milano.
«Una cosa giusta, dopo dieci anni di progetti a Basel, perché oggi comunque è indispensabile essere qui. È il modo per chiudere un cerchio di sostegno e supporto a questi giovani designer: produrli, finalmente».
Non ha paura del crash creativo tra fashion e design?
«L’importante è dare libertà e noi siamo abituati a pretenderla e a darla. E se rispetti questo, non ci sono scontri ma solo incontri. Quando abbiamo deciso con Barbara Pignatelli il progetto, subito ho pensato a Cristina Celestino: trovavo che lei avesse già dimostrato, all’epoca (con Happy Room nel 2016 ndr) una visione completa, pragmatica e pronta per una produzione da vendita. C’è stato un incontro e abbiamo pensato a quello che Fendi Casa aveva fatto. È stato naturale cominciare da quegli inizi, nel 1987, dove il Pequin era l’elemento fondamentale che ricopriva divani e dormeuse dei letti. Una storia bellissima. E poi, guardando l’archivio, Cristina ha scelto qualcosa di più morbido, come la rosa che Karl disegnò nel 1983. Sul resto ha avuto carta bianca. I tempi? Siamo rapidi noi della moda: tre mesi e tutto è stato fatto».
La moda sempre più impegnativa, ma è un trasporto sincero, dagli abiti allo stile di vita?
«Noi forse siamo stati i primi a crederci, nel 1983. Quando ho chiesto a mia madre perché avessero cominciato – all’epoca non lavoravo ancora, ma ero curiosa – lei mi rispose: “Forse perché non siamo mai a casa e quindi sentiamo il bisogno di portare la casa nel lavoro”. Era secondo me una visione molto femminile, nata da un’esigenza che era una mancanza. Come restituire qualcosa al loro lato più intimo».
I clienti sono gli stessi che vestono gli abiti?
«Forse, o potrebbe essere l’opposto. Ti avvicini al nostro mondo perché hai visto un divano di un amico e lo scopri. Oggi si parla molto di esperienze e di life style e credo che, per marchi storici come il nostro, sia naturale esplorare altri confini. Le nostre “FF” per esempio sono un sigillo, una garanzia di qualità. Ed è bello condividere questa esperienza. A Roma, per esempio, abbiamo aperto le “Suites”, dove vivi in questo piccolo hotel come se tu fossi a casa nostra. E la gente è molto curiosa, vuole sapere come e da dove, e spesso chiedono di visitare i nostri laboratori artigianali. C’è una voglia incredibile di capire e conoscere. E i grandi marchi possono spaziare su uno stile di vita».
Gli Anni 70, ancora nell’aria.
«Anni importanti nel designer. Penso a Willy Rizzo e a tanti altri. Anni di cambiamento sociale allora, di cui oggi ci sarebbe bisogno. Energia necessaria. I giovani lo hanno capito. Loro hanno una gran voglia di rifondere certe regole».
Un’altra donna nell’universo Fendi che è alla quarta generazione al femminile, solo una coincidenza?
«Non ho problemi a lavorare con uomini ma quando le donne hanno successo hanno molto da dire perché hanno faticato di più per esserci».
Un grande progetto a Roma, la couture, a luglio.
«Sarà bellissimo, appunto, tornare a casa. Mi piace l’idea. Era un progetto già condiviso con Karl, un’idea di Serge (Brunschwig, il Ceo ndr). Il bello di Roma qualsiasi cosa succede è affascinante, certo è un momento particolare, ma la sua bellezza ti mozza i fiato e quando ci sei dimentichi tutto».