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 2019  aprile 13 Sabato calendario

Intervista a Marina Berlusconi

«La Mondadori apre un capitolo nuovo. Ora siamo un’azienda concentrata sui libri, e credo sia il mestiere più bello del mondo. Ma penso ci sia un motivo in più per essere orgogliosi: perché oggi, con l’aria che tira, di libri, di cultura, di approfondimento, abbiamo proprio un gran bisogno». A pochi giorni dall’assemblea chiamata mercoledì ad approvare il bilancio, Marina Berlusconi, presidente della casa editrice e della holding Fininvest, non nasconde la soddisfazione. Ma anche la preoccupazione per la situazione del governo («nasceva già con l’affanno di promesse elettorali esplosive per i conti pubblici e doveva tenere assieme due forze sempre più divise. E la litigiosità ha ormai portato all’immobilismo»); per l’andamento dell’azienda Italia («mentre gli altri rallentano noi ci fermiamo o addirittura arretriamo. Siamo al vecchio sogno dei grillini, la decrescita, temo ben poco “felice”»); e più in generale per «una politica che ha abdicato al proprio ruolo».
Il suo sarà il mestiere più bello del mondo, ma c’è sempre molta politica in quello che dice, anche da editore. 
«Con la politica, a maggior ragione se sei un imprenditore, non puoi non confrontarti. Ma io mi occupo di aziende, e di aziende mi preme innanzitutto parlare. Di una Mondadori che, cito solo due dati, in pochi anni ha visto passare il margine lordo da 51 a oltre 90 milioni; mentre a fine 2019 i debiti dovrebbero scendere sotto i 70 milioni rispetto ai 363 di sei anni fa, nonostante le acquisizioni dei libri Rizzoli e del digitale di Banzai. E grazie a questi risultati vogliamo tornare a crescere, guardando anche all’estero». 
Beh, l’avventura nei periodici francesi si sta chiudendo con una svalutazione pesante. 
«Quando li abbiamo acquistati, 13 anni fa, Lehman Brothers era uno dei colossi mondiali della finanza e, restando all’editoria, Newsweek un’autorità assoluta. Oggi non esistono più. Stiamo parlando di due ere geologiche differenti. I paragoni non hanno senso. I mercati, i gusti, i consumi cambiano. L’importante è saper reagire. Noi abbiamo reagito». 
Concentrandovi ancor di più sui libri? 
«Anche se la crisi dei periodici è sempre più profonda, abbiamo ancora marchi fortissimi che non intendiamo trascurare. Il nostro presente e il nostro futuro però sono soprattutto i libri, trade ed education. Cinque anni fa valevano la metà di fatturato e margini, l’anno scorso il 70% dei ricavi e ben il 90% dei margini. Ed è una svolta che farà crescere anche il valore della Mondadori: i multipli con cui gli operatori valutano gli editori di libri sono nettamente superiori. Perché parliamo di un business stabile e redditizio». 
Mediaset punta ad alleanze al l’estero per diventare leader europeo della free tv, Mondadori getta l’occhio oltreconfine. Sulla strada di altre grandi imprese un allontanamento dall’instabile Italia?
«Ma no si figuri, qui siamo nati e qui resterà sempre il cuore delle nostre aziende. Per lo sviluppo nell’education Mondadori guarda innanzitutto all’Italia e non esclude investimenti in aree in cui non siamo presenti, a cominciare dal professionale. Per il trade le normative Antitrust ci lasciano poco spazio. L’estero, quindi: che in concreto può significare Germania, Francia e in primis, visto il fattore lingua, mercato anglosassone. Era un sogno, sta diventando un obiettivo, non per piantare una bandierina ma per iniziare un nuovo percorso di sviluppo. Chiaro che i tempi non saranno brevi». 
Resta il fatto che sembra molto critica sulla situazione del Paese.

«Guardo i dati, che arrivano da fonti diverse e tutte autorevoli: peggiorano di giorno in giorno. Scrivere dei numeri su un pezzo di carta o su Facebook è facile, ma non si possono trasformare in realtà con un gioco di prestigio. Mi auguro che questo da “anno bellissimo” non si tramuti in un annus horribilis tra reddito di cittadinanza e presunte flat tax». 
Anche suo padre però propone misure come la flat tax. 
«In una forma diversa. E poi dovrebbero dirci come pensano di finanziarla, visto che ormai le casse sono vuote. Non si sa ancora in che modo intendano scongiurare l’aumento dell’Iva 2020… All’economia serve uno choc subito. Bisognerebbe concentrare le risorse su investimenti e sostegni alle imprese: tagli fiscali, meno burocrazia, incentivi all’occupazione. Lasciando perdere quota 100 e reddito di cittadinanza. Che daranno ben poco in termini di sviluppo e lavoro, anzi, ruberanno un altro po’ di futuro alle prossime generazioni». 
Il governo ha sbagliato tutto? 
«Certe emergenze come l’immigrazione sono state gestite, ma su economia e infrastrutture c’è da augurarsi che almeno la parte più responsabile di questo esecutivo si fermi a riflettere». 
Tradotto: prudenza su Salvini, bocciatura piena per Di Maio. È così? 
«Lasciamo stare le pagelle e guardiamo più in generale. Ecco, credo bisognerebbe smetterla di considerare “classe dirigente” una parolaccia. Il dramma di un Paese non è quello di avere una classe dirigente, ma di non averla o che non sia adeguata e competente. Pensi al disastro semiplanetario che ha combinato un premier evanescente come Cameron, con il suo referendum da giocatore d’azzardo sulla Brexit. Pensi alle conseguenze sempre più drammatiche dello scriteriato intervento di Sarkozy in Libia, o a certi tweet di Donald Trump, che terremotano Borse e mercati...». 
Ammetterà che si tratta di situazioni ben diverse… 
«Certo, e non voglio generalizzare. Ma la politica vera deve saper creare consenso anche su scelte che chiedono sacrifici: non ringrazieremo mai abbastanza, giusto per restare in Gran Bretagna, quel burbero leader che pur promettendo “lacrime e sangue” riuscì a mobilitare il suo Paese e salvò tutti noi dal nazismo. Oggi, invece, mi pare che la politica, un po’ ovunque, si rifugi negli slogan, nei social, nella più trita demagogia perché non è più all’altezza di coltivare ideali e grandi progetti. Ma questa è la fine della politica e non fa certo bene alla democrazia». 
E crede davvero che la cultura ci salverà da tutto questo?
«L’antipolitica, il populismo, l’intolleranza nascono da disagi reali, sono il frutto avvelenato della cattiva politica, di una crisi economica infinita, di una insicurezza diffusa. E il web è stato benzina sul fuoco. La cultura, i libri, non sono la ricetta miracolosa, ma un antidoto sì. Del resto, continuare a investire sui libri, come stiamo facendo, che cos’è se non un atto di fiducia nel futuro, il segno che non ci si rassegna ad un clima sempre più intossicato da rabbie e paure? Perché i libri rappresentano quel bagaglio di conoscenze, di capacità di analisi, quindi di giudizio sulle cose, che è indispensabile per maturare scelte consapevoli, capire le ragioni altrui. E per distinguere quel che è indifendibile da quello che invece andrà anche corretto ma non buttato via». 
Già, ma lei cosa terrebbe? 
«Faccio una sintesi brutale. Prenda la globalizzazione: ha devastato intere comunità, ma negli ultimi trent’anni i poveri del mondo, calcola l’Onu, si sono ridotti di due terzi. Prenda la democrazia rappresentativa: ha mostrato mille difetti, ma vogliamo sostituirla con la pericolosa utopia della democrazia diretta? Vogliamo che i governanti siano semplici esecutori delle volontà espresse dal web, non si sa bene con quali competenze specifiche? Compito della politica è decidere, non chiedere alla piazza di scegliere tra Gesù e Barabba. Un altro esempio? Prenda l’Europa». 
Non vuol far politica, ma adesso non si metterà a fare campagna elettorale per le Europee… 
«Ripeto, il mio mestiere è un altro. Dico solo che l’Europa non ha perso un’occasione per sbagliare, dall’austerità all’immigrazione. Ma neppure ottant’anni fa, e non cinque secoli fa, milioni di persone morivano sotto le bombe o addirittura nelle camere a gas, e finita la guerra l’Italia era un Paese alla fame. Se oggi, nonostante tutto, siamo dove siamo dobbiamo ringraziare anche l’Europa. E ora che l’Occidente ha a che fare con interlocutori del peso della Cina, pensiamo davvero di dialogare ciascuno per proprio conto, portando a casa l’accordino oggi che magari diventerà una cambiale-capestro domani?». 
Lei era davvero contraria alla candidatura di suo padre, come dicono? 
«Da figlia, l’idea di un’ennesima e faticosa campagna elettorale non mi entusiasma. Ma da figlia so anche che mio padre non rinuncerebbe mai a impegnarsi per quello in cui crede. Lotta da 25 anni per le sue idee e oggi che, assieme alle fondamenta dell’Europa, sembrano traballare i concetti stessi di libertà, di democrazia, di competenza c’è ancora più bisogno di personalità del suo livello. E mio padre non ha alcuna intenzione di tirarsi indietro. Anche per questo lo ammiro». 
Suo padre fa la guerra al populismo, ma è stato definito il primo dei grandi populisti. 
«Con le parole si può far confusione. C’è chi, come mio padre, ha sempre messo al centro del suo impegno politico l’ascolto e l’attenzione verso i diversi bisogni, le diverse istanze del suo popolo, ma decidendo poi nell’interesse generale. E c’è chi invece va all’ossessivo rimorchio dei “like” e degli umori mutevoli degli internauti, per accontentare “il popolo” costi quel che costi. Mi pare una gran bella differenza: la differenza tra chi è un vero leader e chi leader non lo sarà mai».