La Stampa, 13 aprile 2019
La nipote di Matteotti racconta
«Non ho fatto a tempo a conoscerlo, ma tutta la mia vita è stata influenzata da lui e dalla sua vicenda. A partire da quella foto che era sul tavolo della sala e davanti a cui si mangiava e si faceva tutto. Era il nume tutelare della famiglia».
Così Laura Wronowski Fabbri ricorda lo zio, Giacomo Matteotti, nella grande casa milanese di via Solferino, dove campeggia la fotografia del leader socialista ucciso dal fascismo. Novantasei anni ben portati, una memoria di ferro e una vita da giornalista, la Wronowski ha trascorso gli ultimi tre anni con la scrittrice Zita Dazzi a ricostruire la sua eccezionale vicenda in Con l’anima di traverso (Solferino editore, pp 221, €15). Romanzo-verità che ci svela la storia della Wronowski, giovanissima partigiana in Liguria, e quella di tutta la sua famiglia nel tener testa all’accanimento con cui Mussolini infierì contro i parenti del deputato.
Dopo l’assassinio dello zio, avvenuto il 10 giugno 1924 quando Laura aveva appena sei mesi, in casa sua «nulla fu più come prima». Il Duce aveva inaugurato qualcosa di mai visto: la persecuzione dell’entourage familiare dell’oppositore politico, imboccando una strada che sarà battuta poi con particolare ferocia anche da Adolf Hitler.
Il Capo del governo operò con continue vessazioni nei confronti di Velia Titta, la vedova di Matteotti e dei suoi tre figli; di Lella, sorella di Velia, mamma di Laura e di altri due ragazzi, e nei confronti del papà di Laura, il nobile polacco Casimiro Wronowski, colto giornalista del Corriere della Sera. La moglie del parlamentare, dopo che La Stampa titolò «L’on. Matteotti non è stato ancora ritrovato, ma niun dubbio ormai sull’esecrato delitto», chiese di essere ricevuta da Mussolini. Quest’ultimo le chiarì che non sapeva nulla e che era all’oscuro di tutto. Dopo il ritrovamento del cadavere, Velia si oppose alla presenza della Milizia fascista e delle rappresentanze in camicia nera al corteo funebre. Per queste alzate di testa fu tenuta dal Duce in «stato di schiavitù»: «Pregasi intensificare vigilanza sulla vedova e sui figli on. Matteotti tenendo sempre particolarmente presente eventualità tentativi di uscire clandestinamente dal Regno», recitava l’ordinanza del dittatore. Il controllo permanente e la «schiavitù» furono estesi anche ai Wronowski che risiedevano a Milano. Casimiro dovette abbandonare il lavoro. Fu radiato dall’albo dei giornalisti mentre le autorità fasciste lo sorvegliavano per impedirgli di trovare una nuova occupazione. Wronowski piombò nella miseria e per un po’ sopravvisse dirigendo la rivistina La Massaia finanziata da un produttore di formaggi. Conoscenti e amici prendevano le distanze dalla famiglia. Che era pure aumentata di numero: per ordine dei questurini, i Wronowski avevano accolto in casa anche gli orfani di Matteotti. Tutti insieme traslocarono a Chiavari per sfuggire alla persecuzione. Ma non servì a nulla. Gli sbirri occhiuti li monitoravano: Laura, segnalata ai professori e agli scolari, fu emarginata e messa al bando da ogni di socialità e dalle attività collettive. Ma lei e gli altri ragazzi erano stati educati a sentirsi fieri delle offese di cui erano vittime per via del loro antifascismo. Velia infatti non aveva abbandonato la speranza di far luce sul delitto ma dovette rinunciare. Anche il suo avvocato subì agguati, percosse, la somministrazione dell’olio di ricino. Quando la vedova si spense in ospedale, Mussolini commentò soddisfatto: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici».
Dopo l’8 settembre 1943, i Matteotti-Wronowski divennero bersaglio dei repubblichini. In strada venivano insultati come traditori e nemici del fascismo. Si trasferirono a Moconesi, nei pressi del torrente Lavagna, e vissero in un casolare di contadini senza luce né acqua. Casimiro fu catturato dagli uomini del Duce e portato a Genova. Laura, informata che il suo ragazzo, il bellissimo ucraino antifascista Sergio Kasman, divenuto braccio destro di Ferruccio Parri, era stato freddato dai nazisti, decise di dare il suo contributo alla Resistenza. Divenne una staffetta partigiana. Pedalava tutto il giorno per distribuire viveri, armi e messaggi ai combattenti disseminati nelle campagne. Insieme con un gruppo di compagni, assaltò il campo di concentramento di Calvari e liberò una trentina di prigionieri in gran parte ebrei. Aveva al collo il fazzoletto tricolore che indicava la sua adesione ai gruppi di Giustizia e Libertà organizzati da Parri, ex collega al Corriere e intimo amico di Casimiro.
La brigata partigiana si chiamava Giacomo Matteotti. Laura, Velia, Lella, Casimiro e i più giovani erano riusciti a tenerne vivo il nome. Avevano sconfitto il Duce che dopo aver fatto assassinare il suo storico nemico aveva fatto di tutto per seppellirlo nell’oblio.