Corriere della Sera, 13 aprile 2019
I concorrenti dell’Eredità
Ho osservato dall’interno l’«Eredità» con lo stesso sguardo con cui si sarebbero avvicinati al più longevo quiz della televisione italiana uomini come Furio Scarpelli, Age o Ettore Scola. Consapevoli della leggerezza dell’oggetto, ma rispettosi del suo consenso popolare e, in fondo, della sua grazia.
Mi vengono in mente due frasi scritte da Age e Scarpelli. Una, con Scola, in «C’eravamo tanto amati», quando Giovanna Ralli dice a Gassman «Ho cominciato a leggere il libro che mi hai dato... ammazza che tosto...» e lui le risponde «Tosto... “I tre Moschettieri di Dumas?”». In «Straziami ma di baci saziami» – già dal titolo un omaggio alla cultura popolare – Nino Manfredi e Beba Loncar leggono, rapiti, i versi della canzone «L’immensità» sottolineando che contengono «gli stessi concetti espressi nella canzone “C’è una casa bianca che”». Quella generazione di intellettuali italiani era pop, senza saperlo. Aveva letto la grande letteratura popolare, si era abbeverata ai fumetti, aveva gustato cinema in sale piene di fumo e con le sedie di legno, e nei locali da ballo aveva scoperto il proibito jazz.
Forse per questa ragione quella generazione di uomini coltissimi – Umberto Eco, Beniamino Placido... – non aveva fastidio per il gusto popolare, per ciò che piaceva alle persone più semplici e non solo ciò che mandava in sollucchero le ristrette élite intellettuali.
Sono entrato negli studi della Dear, dove l’«Eredità» si registra, con questo spirito. Mi dicono gli autori – D’Amico, Sebastiano, Giovannini, Siano, Miglietta – come proprio Eco e anche Benigni guardassero il programma. Mi confidano anche che ci sono delle eminenti personalità che cercano di sapere prima l’esito della prova finale, «la Ghigliottina», per poter poi fare bella figura con moglie o amici. In Italia ci sono poche strade dritte, ma le scorciatoie non mancano mai.
Viviamo in un tempo in cui, nello show business, la garanzia prima di successo sembra risieda nella assoluta, tetragona, capacità di saper far nulla. Viene richiesto, in molte trasmissioni, di non aver fatto nulla prima, di non aver mostrato talenti particolari, sapienza o estro. Questo vale per i reality, come per il rutilante mondo degli influencer. Bisogna saper apparire, inondare la rete di proprie immagini, frequentare i luoghi giusti, non avere ritegno nel rendere pubblico ciò che appare più appetitoso: la nascita di un figlio, un lutto grave, un amore infranto.
A l’«Eredità» invece bisogna sapere. Tutto o qualcosa, ma bisogna sapere. Per chi non conosce il gioco, esso verte su domande di cultura generale, su giochi legati alla lingua italiana, su una sfida finale in cui il campione deve scegliere e poi associare cinque parole per trovare quella coerente con ciascuna.
Chiedo come vengono scelti i concorrenti. Mi rispondono che le domande che arrivano sono in un numero incalcolabile, che ogni anno fanno 10.000 provini e da questi selezionano 1.500 partecipanti. Se ne occupano Miglietta e Carlo Turchetti. C’è una squadra di quindici ragazzi che gira per l’Italia, sottopone gli esaminandi a un test scritto, cinquanta domande di cultura generale, al quale segue un colloquio personale di quindici minuti e poi una prova più breve davanti alla telecamera. I risultati dei vari passaggi non sono noti e solo alla fine li si compara. Si viene valutati per sessantesimi, come agli esami di maturità di una volta.
Non lo dicono, ma è evidente che in ogni puntata si tende a comporre un mosaico in cui ci siano concorrenti più e meno bravi, personaggi, belle storie. «È lo spettacolo, bellezza».
Flavio De Giovanni, laurea in Scienza delle comunicazioni, guida il team che prepara le domande. Ogni anno ne allestiscono circa 25.000 che vengono sottoposte a due livelli di verifica. Ne vengono trasmesse circa 14.000. Dal 2002 ne hanno compilate più di 400.000. Le fonti sono la Treccani, l’Enciclopedia Britannica e un nutrito numero di libri che, settore per settore, forniscono materia per domande e risposte. Chiedo se utilizzino la rete come fonte. Mi rispondono che «no, non si fidano in pieno» anche se da Internet traggono spunti e indicazioni. Ma la loro «cassazione» è la carta stampata.
È Gutenberg, non Zuckerberg.
Il programma, realizzato da Magnolia, va in onda in ogni giorno ed è arrivato a più di 4.000 puntate con uno share medio, mi dice la produttrice di Raiuno Debora Profazi, di quasi il 25%. Chiedo agli autori se ho ragione a pensare che i veri protagonisti della trasmissione siano gli italiani.
Mi rispondono che «il format è l’aereo, il conduttore è il pilota, ma il carburante sono i concorrenti, le persone».
In diciassette anni come sono cambiate? Gli autori registrano «un calo dei livelli di formazione, della preparazione non solo sulle nozioni fondamentali di storia e geografia, ma persino di comprensione basilare del testo. Nei giochi che hanno al centro i vocaboli della lingua italiana abbiamo registrato una riduzione progressiva del vocabolario a disposizione. Alcune parole sono sparite, come le contrade morte del Palio di Siena. Ma quello che ci colpisce è la compressione temporale del sapere. Si conosce quello che si vive, neanche quello che si è vissuto. La storia poi è una grande zuppiera nella quale i secoli sono indistinti, un grande minestrone in cui possono essere coevi il Rinascimento e il Risorgimento».
In effetti ogni tanto se ne sentono di tutti i colori. C’è un gioco in cui i concorrenti devono collocare un avvenimento in uno di quattro anni indicati. Fu chiesto quando Hitler divenne cancelliere in Germania, indicando questi periodi: 1933, 1948, 1964 e 1979. La giusta risposta fu fornita per ultima. Hitler era dunque, per i partecipanti, contemporaneo dei Beatles o di Paolo Rossi. Alla domanda: «Come si chiama di nome il noto artista Warhol?» fu risposto «Paolo». Per me la più sorprendente fu: «Quale è l’opera più famosa del musicista Ravel?». La risposta, roba da Mel Brooks, fu «L’urlo di Munch». O «quale è la lingua ufficiale della Slovenia?». Risposta: «Il finlandese».
Non bisogna fare troppo i fenomeni. Capita a tutti. Una nota personalità politica contemporanea, ha da poco rilasciato la seguente dichiarazione: «Fortunatamente la monarchia fa parte del passato di questa Repubblica».
I concorrenti sono emozionati, hanno la spada di Damocle del tempo, l’agitazione delle telecamere e l’ansia del risultato.
Il risultato... Come è cambiata, nel tempo, la motivazione per la quale si decide di giocare? Gli autori: «La gente all’inizio veniva per tentare la fortuna. Ora vengono per sopravvivere, vogliono vincere per avere una qualche sicurezza in questo tempo incerto. Vogliono scacciare la crisi con la fortuna». Ma l’«Eredità» non è il Superenalotto. È una prova, non una lotteria. Una sfida con se stessi, non una roulette. In questo senso l’«Eredità» sembra figlio legittimo del «Rischiatutto» di Mike Bongiorno.
Gabriella
Ho quattro dipendenti ma fatico ad arrivare alla fine del mese. Sul divano,
con mia figlia, abbiamo fatto un sacco di prove
di quanto potrei vincere
Entro nella stanza dove sono riuniti i concorrenti di una puntata che sta per iniziare.
Luca ha 44 anni, è di Napoli, ma vive a Bologna. Ha trovato lavoro, fino a giugno, a Invitalia. Si occupa del lavoro della ricostruzione post sisma. Dice che ha scelto di partecipare per curiosità, per capire com’è il mondo della televisione. Un po’, confessa, anche per «narcisismo». Ma vorrebbe vincere per aiutare la sua famiglia. Il padre è morto anni fa e la madre vive con i suoi fratelli che hanno perso il lavoro per la crisi.
Gabriella ha invece 59 anni, è di Pavia, e fa l’imprenditrice edile. «Col lavoro riesco a sopravvivere. Ho quattro dipendenti ma è dura». Gabriella ha scelto di partecipare perché vede il programma con la figlia che annota su un quaderno tutte le vincite virtuali ottenute rispondendo, da un comodo divano, alla Ghigliottina finale. Per passare dal virtuale al reale è venuta fin qui, negli studi dove un tempo si giravano i film del più glorioso cinema italiano.
Marsia, 33 anni di Castrovillari, entra con il viso triste. Stanno registrando la puntata precedente e lei è stata eliminata al primo turno. È delusa, voleva almeno arrivare alla parte finale, il «triello», e giocarsela. Fa tre lavori. Anzi uno. Si è laureata con la triennale in filosofia e con la magistrale in scienze pedagogiche. Fa «la supplente di filosofia e la supplente maestra di scuola primaria». Ma non arriva mai a ruolo. E allora la filosofa si è convertita in maestra di ballo, lavoro da cui ricava «non più di 500 euro al mese». Ora è delusa. Un sogno, l’ennesimo, è volato via. Farà la valigia, con i quattro cambi richiesti dalla produzione, e tornerà giù a ballare e a chiedersi se tutto quello che ha studiato le servirà nella vita. Una delle domande più dure da farsi.
Michele, 43 anni, di Acquaviva delle Fonti non teme di dichiarare che ha scelto di essere lì per un po’ di «mania di protagonismo». Ha un contratto a tempo indeterminato e per questo gli altri lo guardano come se avesse qualcosa di magico addosso.
Marco è il più giovane. Ha venti anni e vive a Genova. Studia per fare l’ingegnere ambientale e spera di poter dare una mano alla sua città, ferita dal crollo del Ponte Morandi.
Martina ha 29 anni è di Padova. Ha preso la laurea triennale in Storia dell’arte. Hanno chiesto anche a lei i quattro cambi ma, dice, «i mei armadi hanno solo tonalità che vanno dal grigio al nero». Un po’ come il suo umore se pensa che aspetta da anni i bandi per guida turistica e che è venuta qui per vincere i soldi necessari per finire l’Università.
Luana di anni ne ha 32. È di Cava dei Tirreni. Laureata in biotecnologie ha lavorato due anni in un progetto di genetica agraria. Poi sono finiti soldi e i ragazzi sono stati mandati tutti a casa. Lei dà una mano in parrocchia e aiuta i ragazzi dell’oratorio con le ripetizioni. «Mi sono preparata con loro». Gli altri concorrenti confesseranno di aver studiato soprattutto su Focus e sulla buona, vecchia, Settimana Enigmistica.
In un angolo, come nascosta, c’è Veronica, 23 anni. Lei è la riserva. Riserva da un anno e mezzo. È andata fino alla Dear 35 volte, ma non è mai scesa in campo. Studia giurisprudenza e alla domanda se voglia fare l’avvocato o il magistrato risponde, ridendo: «Il magistrato. Non saprei mentire per difendere un colpevole».
Nessuno di loro ce la farà. La prima a mettere in valigia il sogno di pagare gli studi sarà Martina. Poi Gabriella, Marco, Luca, Luana, Michele.
La puntata si concluderà invece in festa per Valentina, di Ivrea. Campionessa, non per caso, da qualche giorno. Alla prima puntata ha vinto 20.000 euro indovinando la parola «preda». Oggi se ne aggiudicherà 23.750 perché, unendo nella sua testa le parole indicate – guerra, contro, scuola, paradiso, uccelli —, ha trovato quella che tutte le sostiene. Una parola lieve, come il suo sguardo: «canto».
Valentina – giornalista che si occupa di tecnologie, assunta dopo sette anni di precariato – mi dice di essere venuta a l’«Eredità» perché per due anni ha guardato il programma e lo ha usato come ginnastica mentale, come dimostrazione che le chemio e il dolore non le avevano portato via la lucidità, la memoria, la capacità di unire i puntini, come nel gioco della buona, vecchia...
Valentina mi dice di essere qui «per vincere le mie insicurezze, per affrontare una sfida vitale, per essere contenta di me». La prima puntata, quando parliamo, non è ancora andata in onda. E lei non ha detto a casa, neanche alla nonna di 95 anni, di aver vinto. Vuole lo scoprano in tv, che abbiano una bella sorpresa. Se la meritano, anche loro. «Sono rimasta colpita. Ero scettica. Ma qui sembra davvero una famiglia. C’è professionalità, ma non separata dall’umanità. Questo programma tira fuori il meglio, dalle persone».
«È così?». Lo chiedo a Flavio Insinna, il conduttore. Il suo camerino è quello che aveva Fabrizio Frizzi, che ha condotto il programma fino a qualche giorno prima di andarsene per sempre. Tutto parla di lui, qui. Le immagini affisse ai muri che ti accolgono nello studio, gli occhi lucidi degli autori quando lo ricordano, la sua eleganza che resta come modello. «Sapeva giocare in tv anche con un pezzo di legno, portava buon umore, serenità».
Insinna ha raccolto la sua «eredità». Erano amici. Come Insinna lo è di Carlo Conti, qui riconosciuto come il fondatore vero di un progetto che Amadeus aveva varato e dopo un anno era passato sotto la responsabilità del conduttore fiorentino. «Professionista come pochi, semplificatore geniale e metronomo», così gli autori definiscono Conti.
Insinna è il primo «attore» a condurre il programma. La sera precedente la registrazione studia le domande. «Io non ho fatto l’università, dando un dolore ai miei. Poi ho recuperato leggendo, tanto. Questo programma per me è un viaggio umano, un’occasione per conoscere, un’opportunità per inseguire le proprie curiosità. Studiando prima sento meno senso di colpa, il giorno successivo, quando faccio le domande ai concorrenti. Qui non devo studiare un personaggio. Devo studiare le cose. E, tanto, le persone. È quello che più mi piace. Se tornassi indietro farei l’animatore nei villaggi. Far conoscere la vita altrui è una piccola forma di accoglienza. E quando i concorrenti vincono vorrei esultare, sono felice della loro felicità».
Martina
I soldi mi servono per finire l’università. Mi hanno chiesto di portare quattro cambi di vestiti, però nei miei armadi
ho solo abiti grigi o neri
Anche a lui sembra che le persone oggi siano magari superspecializzate, ma che manchi loro il senso e la coscienza dello spazio, del tempo, della storia. Che siano capaci di riconoscere una stella, ma non di leggere, o persino di immaginare, la Via Lattea. Forse è questa, proprio questa, l’«Eredità» di cui ciascuno ha oggi bisogno.