la Repubblica, 13 aprile 2019
New Orleans chiede scusa per il linciaggio degli italiani
Era il 14 marzo 1891: 11 persone vennero accusate di aver ucciso il capo della polizia. Furono assolte. Finì con un pogrom. Le vittime erano i figli dei braccianti deportati in Louisiana per sostituire gli schiavi nelle piantagioni NEW ORLEANS La sindaca di New Orleans, LaToya Cantrell, democratica, ieri mattina alle 11, in una cerimonia privata e fino all’ultimo tenuta molto segreta, nella sede dell’American Italian Cultural Center, ha emanato una “proclamation” con le scuse ufficiali della città per il linciaggio di undici italiani avvenuto il 14 marzo 1891, ovvero 128 anni fa. Era presente il console generale d’Italia a Houston, Federico Ciattaglia che ha portato un messaggio dell’ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Armando Varricchio: «Ringrazio l’Order Sons and Daughter of Italy, antica associazione di italoamericani, per l’impegno profuso e ricordo che la comunità italoamericana ha contribuito a plasmare la storia di New Orleans, della Louisiana e di tutti gli Usa e al progresso di questo grande Paese». Si è poi parlato della «ferita aperta da 128 anni». E che ferita! Il linciaggio di New Orleans è entrato nei libri di storia come il primo grande pogrom avvenuto nel Nuovo Mondo, e con modalità molto moderne. Era successo che, a seguito dell’uccisione del capo della polizia David Hennessy, i potenti della città organizzassero una retata contro la comunità italiana, immediatamente accusata. Razzie di case, negozi, barche, spedizioni punitive, pestaggi. Undici uomini vennero arrestati, tra cui Joseph Macheca e Charles Matranga, tra i più ricchi di New Orleans; ma il processo finì con la loro assoluzione. Gli italiani festeggiarono con fuochi artificiali e innalzando ritratti di re Umberto. È il suo compleanno, dissero, ma non era mica vero. Ma avevano cantato vittoria troppo presto. Sul giornale il giorno dopo, in prima pagina, comparve un invito «a tutti i buoni cittadini» a ritrovarsi la mattina dopo, in centro, per «rimediare al fallimento della giustizia. Venite preparati all’azione». Seguivano, i nomi di 61 politici e industriali e quello del sindaco. Si radunò una folla di ventimila persone, che intonavano il grido «who killa da Chief» scimmiottando l’accento degli italiani. Si mosse un corteo alla cui testa si misero cento uomini armati di fucili a ripetizione Winchester, che sfondarono la porta del carcere, trovarono gli undici (trattenuti per «formalità burocratiche») e li uccisero. I cadaveri vennero portati fuori, impiccati ai lampioni ed esposti al ludibrio. Il console italiano, Pasquale Corte che aveva tentato, da solo, di fermare il massacro, venne espulso dalla città. Vasta eco in tutti gli Stati Uniti, tutti a lodare New Orleans per aver fatto la cosa giusta. Teddy Roosevelt, futuro presidente, disse: «Era tempo che a quella razza venisse data una lezione». Nelle settimane successive, a New Orleans, si diffuse la psicosi, con voci che annunciavano l’arrivo della flotta italiana nel golfo del Messico, di una milizia di mille “mafiosi” pronta a marciare sulla città e la proposta di formare una milizia opposta per dare l’assedio al Vaticano. L’Italia ritirò l’ambasciatore a Washington e, in Parlamento, l’opposizione socialista attaccò il governo e la monarchia che non avevano difeso i loro sudditi emigrati. Ma perché erano finiti lì, i poveri italiani? La storia è feroce e fascinosa e ha inizio con la guerra civile americana e l’unificazione italiana. La prima aveva liberato gli schiavi che ora non volevano più lavorare come schiavi nelle piantagioni di zucchero e di cotone, il lavoro più massacrante del mondo di allora. L’associazione dei proprietari terrieri della Louisiana cercava nuove braccia e le trovò, con formale accordo con il Regno d’Italia, in una Sicilia poverissima, schiantata dalle tasse e dall’esercito sabaudo. Partirono in 30mila, reclutati in decine di paesi e ben presto si accorsero che non gli avrebbero dato la terra, come promesso, ma erano i “nuovi schiavi”. Scapparono dalle piantagioni. New Orleans, “Novorlenza” per i nostri, diventò una “little Palermo” e i siciliani si fecero strada contro i loro antagonisti principali, gli irlandesi. Erano abili nella pesca, nel commercio, aprirono botteghe, formarono – scandalo, insieme ai neri – dei potenti sindacati di scaricatori al porto, le prime flottiglie che andavano a prendere le banane in Honduras; introdussero anche su larga scala il gioco d’azzardo, in una città dalla corruzione altissima. I siciliani erano, insomma, una classe sociale in ascesa. Il pregiudizio contro di loro era molto forte: detti “dagoes”, considerati ufficialmente una razza criminale, mezzi bianchi e mezzi negri, «frutto dell’invasione di Annibale e del disfacimento dell’impero romano», e naturalmente, «mafiosi». (Il termine fu, effettivamente, coniato a New Orleans, prima che a Palermo). Ma si deve anche ammettere che gli americani, furono aiutati proprio dalla scienza ufficiale del Regno d’Italia, che aveva sancito la loro inferiorità razziale e la «predisposizione al crimine» (Cesare Lombroso e la sua scuola). E questa ambiguità violenta tra Italia e Usa sulla “natura dei siciliani” produsse i peggiori frutti: si calcola ora che ci furono nel decennio successivo a New Orleans almeno altri cinquanta linciaggi di siciliani, accusati di “mafia”, stupri, agitazione sociale, estorsioni. Secondi in classifica dopo i cinquemila neri. L’affare del capo della polizia si chiuse dopo parecchi anni: una compensazione di 25mila dollari stabilita dal Congresso per le famiglie degli uccisi. I siciliani di New Orleans, lentamente, si ripresero la scena. Negli anni Trenta Lucky Luciano strinse un patto con il governatore della Louisiana Huey Long per dividersi il bottino delle slot machine e sindaco della città per dieci anni fu addirittura un siciliano, Robert Maestri. I siciliani, insomma, si “sbiancarono”. Ma ci sono voluti 128 anni per avere le scuse ufficiali di una sindaca, Latoya Cantrell, afroamericana. Una piccola, grande notizia, nel clima incerto di ridefinizioni razziali e culturali che vivono oggi gli Stati Uniti. Avete visto Green Book, il film che ha vinto l’Oscar? È la storia, anni ’50, di un guardiaspalle italoamericano che accompagna un genio musicale nero in un viaggio pericoloso nel profondo Sud segregato. Una notte, proprio in Louisiana, vengono fermati da un poliziotto razzista, che chiede all’autista, lo straordinario Viggo Mortensen, «e tu da dove vieni?». «Italiano». «Ah, una specie di negro…». Viggo lo stende con un cazzotto. Nella scena finale, a New York, il musicista nero viene accolto alla cena di Natale dalla famiglia di Viggo, tra polpette e spaghetti. Insomma, ci siamo capiti. Veniamo tutti e due da Roma e dall’Africa. Una buona alleanza, no?