la Repubblica, 12 aprile 2019
Sette anni di solitudine, così è invecchiato Assange
L’uomo è tantomeno se stesso, quando parla apertamente. Dategli una maschera dietro cui nascondersi e vi dirà la verità». Questa frase di Oscar Wilde ci è risuonata in testa tante volte nella primavera del 2012, quando a Venezia siamo passati davanti a un celebre negozio artigianale di maschere veneziane, che ha lavorato anche per il regista Stanley Kubrick. È una delle frasi amate da Julian Assange, perché è la sintesi delle intuizioni che lo hanno portato a fondare WikiLeaks: una creatura dell’era digitale, che, sfruttando l’anonimato della Rete, consente alle fonti di nascondere la loro reale identità e di inviare documenti riservatissimi. File segreti eccezionalmente pericolosi da pubblicare.
Quel giorno, nel negozio veneziano, c’era una spettacolare maschera a forma di sole, giallo e arancio vibrante. La acquistammo e la portammo nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra, dove Julian Assange era confinato da appena un anno. Si era rifugiato lì il 19 giugno 2012 per chiedere asilo. Nessuno si aspettava che sarebbe durato a lungo, rintanato in quel minuscolo edificio buio e deprimente. E invece ci è rimasto confinato per gli ultimi sette anni. E l’unico sole che Julian Assange abbia visto in questi sette anni è quella maschera veneziana.
Senza luce solare, senza aria fresca, senza adeguate cure mediche, senza quell’ora d’aria al giorno che viene garantita perfino ai detenuti nelle prigioni di massima sicurezza. Il suo declino fisico è stato scioccante: ossuto, barba e capelli lunghi da eremita, ma la mente sempre lucida.
Julian Assange non è un personaggio perfetto, le immagini degli adoratori di Donald Trump che lo osannavano dopo la pubblicazione delle email dei democratici Usa lo hanno reso odiato e controverso. Ma i file erano autentici, e allora «dobbiamo pubblicare, pubblicare ed essere maledetti», disse WikiLeaks in quell’occasione.
Le accuse di stupro – oggi archiviate, dopo un’indagine rimasta sette anni alla fase preliminare senza che il procuratore svedese si decidesse a incriminarlo o a scagionarlo una volta per tutte – hanno reso Assange controverso anche nell’universo femminile. I media russi, che hanno sempre dedicato amplissimo spazio alle sue vicende, hanno portato tanti a concludere che Assange fosse l’utile idiota del Cremlino. Ma tante accuse sono parte di una guerra sporca contro di lui e la sua organizzazione.
Errori di certo ne ha fatti. Anche grandi. Ma i documenti pubblicati da WikiLeaks rimangono di notevole importanza, usati ancora oggi da ogni redazione. Dal New York Times al Guardian, oggi non c’è un grande media internazionale che non abbia una piattaforma digitale per l’invio di documenti sensibili in modo anonimo, ispirata a WikiLeaks. E dai Panama Papers a OffshoreLeaks, il modello di Assange di collaborazione tra giornali di tutto il mondo, in partnership, è ormai la regola.
È stato un errore portare Edward Snowden in Russia, nelle braccia del Cremlino? Alcuni pensano di sì, altri ricordano come Snowden avesse chiesto aiuto e asilo a ventuno Paesi, incluso il nostro, che risposero picche. Se oggi Snowden non è rinchiuso a vita in una prigione americana di massima sicurezza, è perché Assange e WikiLeaks sono intervenuti.
Un famoso giornalista americano ha definito Julian Assange «un comandante ribelle sotto assedio». Oggi, l’assedio nell’ambasciata è finito. Ma l’assedio degli Stati Uniti, che da nove anni lo tiene sotto indagine segreta del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano, non finirà né presto né bene. La decisione di Donald Trump di sbattere di nuovo in prigione Chelsea Manning, la fonte che ha passato a WikiLeaks alcuni dei documenti più esplosivi, è il segnale che finirà male.