Corriere della Sera, 12 aprile 2019
Intervista al fotografo Larry Fink
«Sospetto di essere nato, come tanti, curioso della vita. Ma per qualche ragione ho avuto il dono di esserlo più intensamente». Larry Fink, nato a Brooklyn 78 anni fa, si autodefinisce «marxista». Fisarmonica in tasca e digitale al collo, scatta foto in bianco e nero da quando aveva 13 anni. Ha documentato buona parte della storia d’America. La sua opera è in mostra a Reggio Emilia, in una personale dal titolo Unbridled curiosity, «curiosità senza briglie».
Uno dei temi di Fotografia Europea è l’intimità. Come si declina nella fotografia?
«Una fotografia è un pezzo di carta con stampate immagini bidimensionali che raccontano una storia. La sfida è dover riportare su un oggetto bidimensionale un’emozione, e questo aspetto è l’intimità».
Lei scatta sempre in bianco e nero. Perché?
«Enfatizza certi aspetti dell’intimità. Se dovessi fotografare a colori una donna con uno sfondo di fiori rosa, vedrei solo il rosa dei fiori. Così invece mi focalizzo sulla luce che si riflette sul volto».
Lei ha parlato dell’esperienza con i Beats (artisti vicini alla Beat Generation, ndr), ha scritto «I was a photographer and I was useful». La fotografia è utile?
«Non ero come loro, i Beats. Ci univano il jazz, le droghe e una certa rabbia. Ma io ero di sinistra e loro non lo erano. La loro aura emozionale era caotica, la mia no, io avevo una mente ordinata, strutturata. Mi tolleravano, e per loro ero utile, perché sapevano che senza la mia documentazione la loro teatrale anarchia sarebbe stata dimenticata».
Lei è stato utile in altri casi?
«Quando ero con i Beats non lavoravo per soldi, ero bohemien. Avevo 17 anni, per me la fotografia era veramente pura, non aveva necessità politiche».
Poi lasciò il college (l’università). Perché?
«L’ambiente era conservatore e io un anticonformista. Mi avevano scelto perché rappresentavo una specie di minoranza, nonostante avessi voti orribili. Presero due ebrei del nord est e me: io ero quello che fumava erba, indossava sandali, capelli lunghi, di sinistra. Non potevo restare: non mi piace l’autorità».
Se dovesse scattare oggi «Social Graces» che soggetti sceglierebbe? (un reportage di confronto tra le classi sociali dei party patinati di New York e la classe rurale della Pennsylvania anni 70 ndr).
«I soggetti sarebbero gli stessi. Sarebbe diverso l’approccio. All’epoca ero convintamente di sinistra. Fotografavo le classi benestanti perché pensavo che sarebbero sparite con la rivoluzione. C’era una ideologia di fondo, ora quell’ideologia non c’è più, non interamente».
Lei ha scritto che un aspetto della nostra cultura è di volere «dimostrare» (proof) tutto. È quello che succede ancora di più oggi, con i telefonini in mano?
«La gente non vuole più fare esperienze. Un paio di anni fa io e mia moglie Marta siamo andati a Piazza Navona: era pieno di turisti che si facevano i selfie di fronte al Bernini. Non contemplavano lo splendore della fontana di Bernini, ma guardavano sé stessi di fronte a qualcosa di culturale. La tecnologia fa tantissimo per l’informazione, ma danneggia l’anima».
E cosa pensa dei selfie?
«Puro narcisismo, così pervasivi da essere una malattia culturale».
Lei ha frequentato Andy Warhol. Ricordi?
«Una volta a pranzo passammo vicino al cortile di una scuola popolare, c’erano tanti ragazzini di tutti i tipi. Io non amavo particolarmente Warhol e il suo gruppo, per me erano un manipolo di fighetti. Li ho fatti ballare in cerchio con i ragazzini. Poi ho pensato: sono un rivoluzionario! E i ragazzi erano i miei eroi proletari. Ho chiesto agli studenti di attaccare gli artisti. E lo hanno fatto. Andy Warhol odiava farsi toccare, rimase allibito. Le foto sono venute male, ma ho creato una rivoluzione simbolica nel cortile di una scuola».
Nel futuro?
«A parte che non abbiamo futuro nell’America di Trump, sto lavorando da un paio di anni a un progetto di ritratti dei volti come mappe dell’anima. Forse riuscirò a includere anche dei detenuti, voglio che si colga l’aspetto dell’umano dietro la colpa. Mi piacerebbe tenere dei corsi di fotografia in carcere».