Corriere della Sera, 12 aprile 2019
Ferzan Ozpetek alle prese con Madama Butterfly
«Io mi sento sfacciato, sia al cinema che nella lirica». Ferzan Ozpetek ha una visione «strettamente» personale di Madama Butterfly , la sua terza regia d’opera, dal 16 aprile al San Carlo di Napoli diretta da Gabriele Ferro.
Punto primo: «Lei, Cio Cio-San (Evgenia Muraveva) è determinata, sa quello che fa, cambia religione, non è fragile e non è una vittima; casomai lo è Pinkerton (Saimir Pirgu) che è il suo idolo, la sua preda, è invasata di lui, un burattino, una vittima di sé stesso. I due faranno l’amore in modo realistico, si desiderano, fremono. Una scena al massimo dell’indecenza». E Suzuki, la cameriera, si innamora di Butterfly. Azione spostata in un villaggio di pescatori a Nagasaki, 1950, «epoca di purezza e ingenuità». In sala quattro sosia di Butterfly. L’emotività, il sentimento: Ozpetek è un regista istintivo che sente prima di vedere le cose.
La musica è centrale nel suo cinema.
«Quando penso un film spesso le immagini si costruiscono nella mia mente con l’aiuto di canzoni. Ma non sempre la canzone che mi ha guidato in una scena entra a far parte del film. C’è una colonna sonora della mia fantasia: fantasmi, ricordi, emozioni che abitano il mio film interiore. Adoro Mina. Siamo amici, su WhatsApp, comunichiamo con messaggi vocali. Ancora non ci conosciamo di persona. È intelligente, capisce le cose prima degli altri e ha senso dell’umorismo».
Lei, sospeso fra due Paesi.
«Sono 43 anni che vivo qui. Non mi sento né italiano né turco. Sono romano, napoletano, leccese, milanese. Cerco di raccontare sentimenti e emozioni. Una volta una giornalista mi parlava in inglese. Guarda che puoi parlarmi in italiano, le ho risposto».
Abita nello stesso palazzo romano da più di quarant’anni, set di vari suoi film.
«Quando vi misi piede, il palazzo in via Ostiense aveva un’unica anziana proprietaria che nessuno aveva mai visto. Vi abitava una varia, eccentrica umanità. Emarginati, omosessuali. Sarebbero diventati la mia famiglia. Ogni giorno un’avventura e qualcosa di nuovo da fare, persone da conoscere, inviti e incontri che ti portavano in direzioni impreviste. C’era l’Estate Romana di Nicolini, aria di libertà e di libertà, l’amore e il sesso come forme di conoscenza senza censure né limiti. Un virus terribile mi avrebbe portato via tanti amici: l’Aids».
Ne aveva paura?
«Sì, avevo paura di ammalarmi, di morire. Col passare degli anni sento il peso delle assenze, delle persone che ci hanno lasciato. Oggi temo non il nazionalismo ma l’intolleranza da persone che non ti aspetti. Si teme di perdere ciò che si ha e l’immigrato rappresenta la minaccia».
Roma è in crisi profonda.
«La amo, ha lo stesso respiro di Istanbul. Ma l’incuria, la sciatteria, il blocco per tre giorni di fila, tra visita del leader cinese, domenica ecologica, chiusura delle tre fermate centrali della metro. Certi giorni ti sembra di essere su Scherzi a parte».
Napoli l’ha nominata...
«Cittadino onorario. È una città che ti abbraccia, una sensualità tangibile, la tocchi. La Napoli di Gomorra? Potrebbe essere qualsiasi città. Mi piace la serie, però è faticoso il modo di recitare, anche in Suburra, come se gli attori avessero una bomba nel fondoschiena che sta per esplodere, i malavitosi si fissano negli occhi, sembra una parodia delle precedenti serie».
Agli inizi è stato aiuto regista di Massimo Troisi.
«Tra le mie mansioni dovevo portargli il tè con i biscotti. Era una bella persona. E Napoli è a dimensione umana. Ci si pone cercando una soluzione, includono e non escludono. Sono le persone che fanno la città».
Lei ha sposato Simone.
«No, per me l’Unione Civile non è il matrimonio. È un modo di difendere i diritti delle persone a cui vuoi bene, una protezione reciproca. Simone è il compagno del viaggio della vita».