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 2019  aprile 12 Venerdì calendario

La modernità secondo Heidegger

Tra smentite e colpi di scena prosegue in Germania la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger. Curato da Peter Trawny, esce in questi giorni presso l’editore Klostermann il volume 99 delle opere complete, che risale al periodo tra il 1947 e il 1950. Il titolo Vier Hefte I und II («Quattro Quaderni I e II») potrebbe far pensare alla prima metà di un trattato; al contrario, le due parti, rispettivamente di 125 e 124 pagine, costituiscono l’insieme di un’opera rimasta incompiuta. Trascritti quasi certamente da Dorothea Vietta, legata in quel tempo al filosofo da una relazione intima, questi quaderni sono per lo più composti da brani di diversa lunghezza, talvolta brevissimi. Aforismi? Non proprio – avverte lo stesso Heidegger. Almeno se con «aforisma» s’intende quella scappatoia della spensieratezza attuale che cerca una soluzione sbrigativa pur di non pensare. Lo stile muta rispetto alle Annotazioni di quegli stessi anni (contenute nei volumi 97 e 98). È insieme più lieve e più filosofico, mentre si affievoliscono i toni polemici. Nessun riferimento esplicito agli ebrei, al nazismo o al destino tedesco. Solo una volta affiora di nuovo la critica al monoteismo, già sviluppata in precedenza: il Dio « unico », che non tollera altri dèi, sarebbe il modello teologico dei «dittatori» politici.
A conferma della grande importanza dei Quaderni neri, che non è possibile in nessun modo ignorare, questo sesto volume è quasi un florilegio di tutti i motivi che Heidegger svilupperà nella sua filosofia del dopoguerra: dalla questione della tecnica, quell’inarrestabile volontà di controllo e calcolo, alla Gelassenheit, che vuol dire abbandono sereno, tranquillità distaccata. Ritrarsi dinanzi alla natura, sfruttata come semplice riserva, anziché seguitare a produrre con ritmo sempre più intenso. Lo sguardo si volge alla colonizzazione tecnologica del pianeta. La condizione dell’esistenza è come quella del viandante che ha marciato a lungo sul mare ghiacciato, immaginando che fosse un fondamento stabile, mentre d’un tratto la banchisa si muove e, tra i mille lastroni che si rompono, emergono abissi oscuri, precipizi vertiginosi. Nulla è più come prima. Concetti e valori tradizionali si sgretolano.
Una parola che torna costantemente in questi Quattro Quaderni è Verwahrlosung, che vuol dire «incuria». È il dispositivo della tecnica a imporre il dominio dell’incuria sulla terra. Tutto è lasciato senza custodia, trascurato, non salvaguardato. Per Heidegger questa non è una mera constatazione sull’attualità; piuttosto è un pensiero filosofico. E va letto come tale. L’incuria è la volontà di controllare gli eventi, è l’oblio del sonno ontico, cioè dell’esistenza che consuma un ente dopo l’altro, ripiegata su di sé, dimentica, priva di quell’estasi, «che non è un trasporto», bensì è il battito stesso del suo respiro, quell’uscire ogni volta da sé, quel trascendersi, senza cui si chiuderebbe asfitticamente.
Ma l’incuria è anche un certo rapporto con il linguaggio e un certo modo di intendere la verità. La parola greca alétheia costella le pagine di questi quaderni. I lettori di Heidegger avranno modo di riconsiderare il concetto in cui si condensa il suo pensiero, anche alla luce del fuorviante e sterile dibattito intorno alla post-verità, dove ci si ostina a cercare fantomatici criteri per distinguere il vero dal falso nel dibattito pubblico, come se fosse riducibile a un giudizio logico. È questa concezione positiva, e positivistica, che Heidegger ha messo in discussione.
La verità non sta nell’immediatezza del dato, nella conformità al reale: l’intelletto che si adegua alla cosa, la parola-etichetta che fedelmente l’esprime. Il modello logico-tecnico ha assecondato quest’idea rassicurante di verità intesa come saldo possesso. Ma alétheia, formata dall’alfa privativo e dal verbo lantháno, nascondere, ci dice quel che i Greci già sapevano: che la verità, nella sua ampiezza prediscorsiva, ha sempre un fondo negativo e oscuro. È quell’uscire dall’oblio, quel sottrarsi all’occultamento, in un gioco di luci e ombre. Soprattutto non è un giudizio, ma è un evento. Sarebbe vano e deleterio pretendere di padroneggiarlo. Questa è la procedura della tecnica. «Non si medita abbastanza questa svelatezza». «Si dimentica il léthe», il fiume dell’oblio.
Compare nei Quattro Quaderni uno dei motti di Heidegger, divenuti celebri grazie alla Lettera sull’«umanismo»: «Il linguaggio è la dimora dell’essere». Non ci sono prima le cose, nella loro neutra e spoglia nudità, che sarebbero quindi pensate e riceverebbero poi un nome a mo’ di etichetta. Le parole hanno uno spessore semantico, una profondità ontologica – chiamano le cose ad essere. Ci muoviamo in un mondo articolato linguisticamente, dove le parole ci orientano. Ecco perché, se il linguaggio è la dimora dell’essere, «la lingua è l’abitazione dell’esistenza umana». Trascurarla vuol dire tentare di appropriarsene impiegandola come un qualsiasi strumento. Il linguaggio è invece il «paradiso terrestre della terra», quella «sfera mondana» che richiede la cura attenta della condivisione, perché si dà sempre nel dialogo. Già prima Heidegger si era soffermato sul verso di Friedrich Hölderlin: «…poeticamente abita l’uomo sulla terra». Qui annota: «La saga dei Quattro Quaderni parla nel dialogo del linguaggio».
L’accento sul quattro non è casuale. Heidegger non scrive mai il numero 4 e intende riferirsi invece all’esoterico concetto di Geviert, letteralmente la raccolta dei quattro, il quadrato, la quadratura. In un linguaggio poetico i quattro sono la terra e il cielo, i divini e i mortali. Il mondo non è un inerte contenitore di oggetti. Si inaugura grazie a un evento e si dispiega in quelle quattro direzioni, verso quei quattro punti cardine. Tutto dipende dal nostro rapporto con gli enti che ci circondano. Anche la cosa più piccola e insignificante, come una brocca, può mettere al mondo il mondo, può lasciarlo affiorare, dischiudendo quella quadratura. Troppo rapidamente il nostro sguardo sfiora un oggetto e passa oltre; ma in questa dimenticanza reiterata perdiamo, incuranti, noi stessi e il mondo. Sta alla risposta dei mortali, alla loro responsabilità, abitare il mondo nella salvaguardia e nella cura.