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 2019  aprile 12 Venerdì calendario

In Catalogna con Javier Cercas

«Questo tempo non è il mio». La voce dolce-amara di Jaime Gil de Biedma arriva da lontano mentre la Peugeot di Javier Cercas percorre le strade dell’Empordà. È il gennaio 2018. Sotto il sole grigio si intravedono le poche case di Ultramort, il villaggio dal nome spaventoso dove il poeta della «Generación del 50» si rifugiò, prima di morire, per trascorrere in solitudine «una seconda infanzia prolungata». È chiaro che molti tempi non appartengono a chi viene costretto a frequentarli, ma l’avvertimento immaginario di un non-vivo, coniugato al presente, colpisce come una freccia il bersaglio.
Una mano sul volante, l’altra che ogni tanto disegna l’aria, Cercas pensa, parla, guarda il paesaggio di questa Toscana senza cipressi dove si ritira a leggere, sapendo però che «è più difficile vedere le cose evidenti che abbiamo davanti agli occhi, non quelle nascoste». Sarà anche per questo che la sua riflessione, oggi, è legata all’obbligo di convincersi che «anche noi stessi europeisti siamo diventati i nemici di questa idea visionaria». «Non abbiamo avuto la capacità di dimostrare – mi dice a Barcellona, poco più di un anno dopo quel nostro ultimo incontro – che l’Unione Europea non è un’invenzione artificiosa, ma una necessità fondamentale della gente comune, il solo modo per sconfiggere l’irrilevanza e per inseguire la prosperità».
Ma torniamo indietro a quell’inverno. Da Ultramort andiamo a L’Escala, svuotata dal freddo, dove il vento sembra soffiare l’anima soltanto dentro le cose. Nel ristorante sulla Platja de les Barques le lingue sono molte, ma le parole urlate forte nei mesi precedenti, dopo la proclamazione dell’indipendenza (in uno scenario che lo storico Josep Fontana definì «prebellico»), sembrano scorrere come sottotitoli in catalano sulle finestre appannate: «¡Libertat, democràcia!». Prendendo in prestito la metà amara della voce di Gil de Biedma, il cui spirito continua ad accompagnarci, Cercas si lascia sfuggire che «la crisi divide, rompe i rapporti di amicizia». «Conosco persone – aggiunge – che non mi parlano più perché non sostengo la loro causa».
Anche per lui, insomma, il tempo rischia di diventare un nemico. È impossibile fermarlo, il tempo. La storia è fatta invece di attimi, come sa bene chi ha scritto un libro eccezionale, Anatomia di un istante. Gli chiedo, quando ci rivediamo qui, nella grande città, se esista un’immagine-simbolo di questa nostra epoca recente, un’immagine come quella su cui ha costruito il suo romanzo: i deputati delle Cortes che si nascondono sotto il banco (tutti tranne due) durante l’irruzione del colonnello Tejero per il fallito golpe del 23 febbraio 1981. «Forse – risponde – è la scena, vista in tutto il mondo, in cui la giornalista ungherese Petra Laszlo sgambetta un migrante con un bambino in braccio e tenta di dare un calcio a una donna». Perché? «Perché l’Europa è anche un’idea morale: proteggere la gente che non ha potere».
Il gesto assurdo di Petra Laszlo, «un atto istintivo che dimostra quello che siamo», è avvenuto nel settembre 2016, al confine tra Serbia e Ungheria. Scopriamo che la sua vittima, Osama Abdel Muhsen Al Ghadab, è poi arrivato insieme al figlio in Spagna, dove ha ottenuto asilo politico e allena una squadra di calcio. Anche lui, quindi, partecipa senza essere materialmente presente a questa nostra conversazione. Siamo in una saletta del bar Escocés, nel quartiere di Sarrià, controllati discretamente da un anziano cameriere, in livrea bianca e bottoni d’oro, che ci aveva squadrato all’inizio con uno sguardo da sfinge. È una sera di fine marzo. Si avvicinano le elezioni politiche del 28 aprile («in questa campagna elettorale nessuno parla di Europa») che saranno seguite un mese dopo da quelle per rinnovare l’Assemblea di Strasburgo: «Un voto in cui troppe forze di troppi Paesi vogliono la disarticolazione di ciò che è stato costruito finora». Chi manca è Giulio Regeni, che prima di essere eliminato dai servizi segreti egiziani aveva lavorato a una tesi sullo scrittore seduto adesso su questa poltroncina rosso scura, notando come la «complessa ricostruzione delle vicende storiche spagnole» contenuta nei suoi romanzi fosse in parte vincolata «dall’irrazionalità dell’animo umano». I due non si potranno conoscere mai. Ora una fila di cipressi, uguali a quelli che non crescono nell’Empordà, si allunga a Fiumicello, in Friuli, sopra una tomba coperta da libri rivestiti di plastica.
Lo scorrere dei giorni ha guarito almeno le ferite personali di cui Cercas parlava a L’Escala? Risponde di sì, ma preferisce cambiare discorso. Resta netto, però, il giudizio negativo su un indipendentismo «sleale», che «ha violato la democrazia dicendo di farlo nel nome della democrazia». La sua idea della necessità di «conciliare l’unione politica con le diversità culturali», che rappresenta «la grande sfida che abbiamo davanti», non vuol dire solo riconoscere una complessità insuperabile. È anche un modo, forse, per disinnescare i pericoli più forti: la rinascita del nazionalismo vecchio e nuovo, l’attrazione oscura esercitata da chi «si appella al popolo invece che parlare ai cittadini», «l’uso calcolato delle menzogne». Il gusto leggermente salato dell’acqua minerale Vichy Catalan non contribuisce ad arrotondare il senso dei ragionamenti.
È il momento di tornare, di riprendere il cammino in salita tra i palazzi che dominano il mare. «In spiaggia vanno solo i giovani: per i vecchi barcellonesi è un luogo che non esiste», racconta divertito, lui che è arrivato bambino da Cáceres, in Estremadura. Non sottovalutiamola, però, questa città borghese e scamiciata, mediterranea e parigina, geometrica e contorta, magniloquente e beffarda, avida e generosa, conformista e ribelle, potente e allegra. Accada quello che accada, rimane il luogo giusto per un omaggio alla nostra Europa difficile, all’Europa che va consolidata, resa più equa e più giusta. Tornerà mai a essere quella che abbiamo sognato? «Sinceramente lo ignoro. Lo ho detto e lo ripeto. Ma sono sicuro – risponde l’autore di Soldati di Salamina — che è l’unica forma per preservare la pace e la concordia. È la sola utopia ragionevole che abbiamo inventato in un secolo nel quale abbiamo creato paradisi teorici diventati poi inferni reali. Non dobbiamo farcela portare via».
Fermo scontato il cosmopolitismo, non sempre però gli intellettuali o gli artisti barcellonesi vedono le cose nello stesso modo di Cercas. Che l’utopia europea si stia «allontanando sempre più», per esempio, lo pensa anche Carine Valette Ayala, autrice e poetessa francese diventata una protagonista del mondo culturale alternativo. Ma a suo giudizio ciò accade in primo luogo perché «a Bruxelles si fabbrica una politica che non si pone l’obiettivo del benessere dei cittadini». «Tutto questo – prosegue – mi fa credere ora molto più nel potere della società civile che in quello delle istituzioni: nei miei ultimi progetti uso le arti sceniche e la scrittura come leva del cambiamento sociale». Pavel Amilcar – violinista messicano dal limpido talento che affianca Carine in azioni teatrali dove si intrecciano in maniera splendida versi e musica – ritiene che il concetto di «distruzione» dell’Europa sia contraddittorio in se stesso perché «fomentare e coltivare un individualismo economico porta inequivocabilmente a una rottura sociale e all’isolamento».
Nessuno può prevedere se queste idee – le idee di Javier, di Carine, di Pavel – si incontreranno. Magari anche soltanto per fare in modo che non vincano quelle dei rigoristi, dei liberisti o peggio ancora dei sovranisti. Cercas ammette che il progetto europeo «è iniziato con una impronta elitaria che non ha mai perduto». Ma rimane, questo progetto, «il più ambizioso, serio e necessario» della nostra epoca. Lui continua a essere un «estremista dell’europeismo» come disse la prima volta, sempre in quel lontano gennaio, mentre le acque del golfo di Roses si ingrossavano e la bontà delle acciughe sul pan con tomate faceva momentaneamente credere ad una impossibile semplicità del mondo.
A proposito di acciughe, Aleix Clavera – proprietario del magazzino davanti al mercato del Born che espone foto in bianco e nero di quando, molto tempo fa, il negozio era quasi uguale a oggi – mette in discussione una delle mie poche certezze. Secondo lui le anchoas di L’Escala, meno conosciute, non sono affatto migliori di quelle più famose del Cantabrico, dove i salazoneros siciliani – emigrati, come spesso succede, lontano da casa – alla fine dell’Ottocento insegnarono ai pescatori locali le tecniche di conservazione. «Mia moglie, comunque, preferisce le “sue”», concede, «perché molto si basa anche sui gusti personali».
Viviamo di differenze, insomma. Acciughe e aringhe, per esempio, appartengono allo stesso ordine, i Clupeiformi. Le seconde, immerse in quella loro brodaglia lattiginosa, non fanno pensare al sole, però, ma al chiarore biancastro dei crepuscoli nei Paesi nordici. Il loro legame con la luce ha in ogni caso qualcosa di speciale se si pensa che, una volta pescate, brillano a contatto con l’aria. Questa sorta di «singolare fosforescenza», come racconta W.G. Sebald, ha fatto sperare circa centocinquanta anni fa di poter produrre un’essenza luminosa organica «in grado di rigenerarsi da sé all’infinito».
«Il fallimento di un progetto così eccentrico – si legge ancora ne Gli anelli di Saturno — fu uno smacco del tutto trascurabile nell’altrimenti inarrestabile processo di rimozione dell’oscurità». È possibile essere veramente sicuri che questo cammino sia «inarrestabile»? Non esiste il pericolo che il buio riguadagni poco a poco il terreno che ha perduto? Cercas «vuole» assolutamente essere ottimista. Domani andrà a correre tra le strade di casa e scriverà qualche pagina del suo nuovo libro nello studio di Gràcia, il quartiere dove abitano i giovani che frequentano l’università, lavorano, vanno al mare e a volte provano a cambiare il mondo. Ma prima di salutare avverte: «Se dimentichiamo il passato, siamo preparati per ripeterlo. La Storia non ritorna uguale, indossa maschere diverse».