La Stampa, 12 aprile 2019
La virtù del lillà
Mi sarebbe tanto piaciuto coltivare un piccolo giardino di montagna, ma non estremo, non lassù dove le nevi lasciano scampo solo pochi mesi l’anno. Una mezza altezza è per me l’ideale, quei mille metri snobbati un po’ da tutti, così irreparabilmente demodé: la casa in pietra ruvida ed essenziale, la preziosissima sorgente, i vecchi castagni, forse un noce, tanti lillà. E, se non troppo secco, grandi cespi di peonie e lunghe siepi di fragole e soprattutto lamponi nelle zone più assolate. In fondo non è un sogno difficile da realizzare: le nostre valli abbondano di borgate dimenticate, dove nessuno vuole più vivere e neppure andarci in villeggiatura, un mondo che sta via via scomparendo, povero, non eclatante, ma pieno di grazia, di sobrietà. E soprattutto facilmente accessibile anche alle tasche meno rigonfie. In tempi di gusti così espliciti ed esasperati questa pacata via di mezzo, anche in termini giardinieri, potrebbe essere un’alternativa piena di fascino e significato.
Eleganti e profumati
Finora però il Bramafam ha concentrato tutte le attenzioni e mi sono dovuto accontentare di un boschetto di lillà nel punto più alto e distante del giardino, in un posto scosceso e freddo, rivolto a nord-ovest. Vengono da un solo e grande cespo diviso a colpi di vanga ormai alcuni decenni fa: i lillà (Syringa vulgaris) sono piante di facile trapianto e di semplice trasporto. Era una varietà antica e senza nome, con fiori di un viola sbiadito ed elegante, profumatissimi, proprio come quelli che ancora si trovano accanto a qualche vecchia baita abbandonata.
Col tempo l’insieme si è arricchito di una pur minima pretesa giardiniera: a piccoli gruppi sono stati aggiunti alcuni lillà a fiore semidoppio e bianco, molto usato un tempo per la forzatura in serra, e altri di un vinaccia luminoso ed intenso. In casa l’abbiamo sempre chiamato il lillà «Cavour», sapendo che in fondo si tramandava come sicura asserzione uno statement che nulla aveva di preciso, ma che al contrario faceva tanto Piemonte. Evitando comunque gli ibridi più moderni, con fiori certamente più grandi e pieni, colori vivaci, ma purtroppo quasi inodori.
E questa per un lillà è una mancanza a mio parere inaccettabile. D’altronde le vecchie varietà hanno un fascino tutto speciale, soprattutto quelle ottenute da Lemoine negli Anni Settanta dell’Ottocento. Basta una rapida occhiata al sempre fidatissimo Hillier, ultima edizione, per capire che le varietà migliori e più consigliate restano quelle del celebre francese.
Insieme con i glicini
Almeno fino a quando il baricentro dei lillà, con i loro ibridatori ed estimatori, non si spostò verso nord, alla ricerca dei freddi. Dapprima in Russia, da dove proviene la pluripremiata S. v. Sweginzowii, con i suoi morbidi e penduli panicoli, e poi addirittura oltreoceano, nel Massachusetts e nello stesso Canada.
Nel grande caos di questa primavera i miei lillà sono fioriti insieme ai glicini, con quasi un mese di anticipo quindi. E lo stesso vale per le peonie, che sono pronte al via. Speriamo che le giornate fresche continuino, magari senza piogge troppo violente, preservando almeno per un po’ colori e profumi.
I cambiamenti climatici
Non c’è da illudersi però: la mia montagna immaginaria, quei lembi abbarbicati tra le vette del giardino, danno sempre maggiori segnali di stanchezza. I grandi secchi degli ultimi anni rivelano ahimè tutta l’intrinseca precarietà di quel piccolo sogno botanico.
Nelle terre asciutte e calde del Bramafam è ormai più facile vagheggiare il Mediterraneo che le Alpi: non per nulla gli iris della Dalmazia stanno prendendo il sopravvento anche lassù, insieme ad altri di un giallo un po’ troppo carico e perciò da tempo relegati lontano. Nei posti più aridi, ormai è diventato una specie di ritornello, amo piantare i cisti, soprattutto un ibrido di C. purpureus che si chiama Alan Fradd, buono qui a tutte le situazioni, vistoso protagonista di primavere ormai assolate.
Anche se lasciati tranquilli, al riparo da assillanti potature, e nonostante qualche piccolissima perdita della cisterna lì vicino, i lillà mostrano chiaramente un’inattesa infelicità. Al loro posto perché non piantare le exochorde (soprattutto E. x macrantha «The Bride»), che hanno reagito così bene a un brutale trapianto e sono ora in pienissimo rigoglio? Oppure i Chaenomeles, sia quelli a fiore bianco che rosso forte, il comune, violento e classico buisson ardant?