La Stampa, 12 aprile 2019
Elogio dei depositi
I musei sono nati nell’Età dei Lumi per offrire esempi agli artisti. Artisti contemporanei si sono cimentati con gli allestimenti delle sale espositive e dei depositi per interpretarli: come nei casi degli allestimenti del Museum Kunst Palast di Düsseldorf e del Museum für Angewandte Kunst di Vienna e di artisti come Beuys, Boltansky, Spoerri, Kosuth, e Haacke che al museo di Rotterdam ha creato con i depositi una suggestiva installazione. E molti altri; fino al lavoro fotografico di Mauro Fiorese in questi giorni in mostra a Verona.
Grazie agli artisti i depositi hanno acquisito lo statuto di opera d’arte. Purtroppo, invece, oggi i depositi sono additati spesso dai media come cantine rovinose.
Conservazione e scoperte
Odi profanum vulgus… et arceo (e mi richiudo in me), dice Orazio. Molti curatori e direttori di musei tengono inaccessibili i depositi, per l’inconfessabile desiderio di riservarli alle proprie ricerche e scoperte. Ma non rinchiudiamoci. Temiamo la vulgata contro i depositi; ma non li chiudiamo e riflettiamo, per esempio, su alcune risposte semplici e comprensibili da tutti.
- Le opere nei depositi hanno molte più probabilità di sopravvivere al tempo di quelle esposte; musei distrutti dalle guerre si sono rifatti recuperando opere dai depositi.
- I depositi sono luoghi di studio e di ricerca (come gli archivi e le biblioteche): nei depositi gli studiosi fanno di solito le scoperte più nuove e interessanti.
- Se non ci fossero in un museo opere di seconda o di terza scelta, con le quali confrontarsi quotidianamente, non si saprebbe nemmeno quali sono le opere di prima scelta.
- Inutile ribadire che in un museo tutti gli oggetti conservati sono soprattutto documenti storici, e documenti che raffigurano l’identità stessa del museo.
I papiri di Ercolano
Per più di 250 anni sono stati conservati nei depositi della Biblioteca Nazionale di Napoli i papiri carbonizzati della grande biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano (l’unica biblioteca antica rimastaci), la villa del suocero di Giulio Cesare, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, scavata già nel 1752. Si pensava che nessuno avrebbe mai potuto leggerli. Ma oggi il Cnr (Istituto per la Microelettronica e Microsistemi) di Napoli, con la tecnica medicale della tomografia a raggi X a contrasto di fase, riesce a leggere i rotoli.
Con i 5178 frammenti di pietra delle colline di Monte ‘e Prama (recuperati anche nei muretti a secco!) per 30 anni conservati nei depositi delle Soprintendenze della Sardegna una squadra di specialisti aiutati dai computer ha ricomposto e restaurato 37 statue (16 pugilatori, 5 arcieri, 4 guerrieri, 13 castelli nuragici) che sono diventati perfino i testimonial della Regione Sardegna.
«E perché le opere dei musei non si vendono?». Molti pensano che bisognerebbe «sfoltire» i depositi. Ma vendendo che cosa?
Beni inalienabili
Le leggi italiane comunque lo proibiscono (l’art. 54 del Codice dei Beni culturali dispone la inalienabilità), e però tutto può succedere in un mondo dominato dal mercato. Dove tutto ha un prezzo. Ma il nostro patrimonio non deve avere un prezzo.
I professionisti dei musei dovrebbero perfino evitare di cedere alla richiesta degli enti proprietari (pubblici o privati che siano) di dare un valore venale alle opere in inventario: è il primo passo verso la vendita. Ciò che per definizione non ha prezzo non si vende, e viceversa solo ciò che si vende ha un prezzo.
Sfatiamo alcuni luoghi comuni e diamoci alcune buone ragioni per non saccheggiare i depositi.
- Vendere le opere minori o «spendibili» di un museo è come eliminare da un albero genealogico gli antenati poco rappresentativi: l’effetto è che si perdono tutte le connessioni.
- Vendere le opere solo perché sono (secondo la vulgata) «sepolte» nei depositi è per un direttore di museo come giocare alla «roulette russa»: non saprà mai (o lo saprà troppo tardi) se ha venduto un capolavoro o un oggetto storico unico. Il museo di Birmingham piange ancora oggi dopo 50 anni la vendita di opere dell’Estremo Oriente che allora non erano di moda e venivano ritenute irrilevanti.
- Vendere opere donate vuol dire scoraggiare e perdere i futuri donatori; nessun donatore ha interesse a donare un’opera che può essere poi venduta per pagare la bolletta della luce.
- Una «serie» di opere è un bene importante anche se formata da duplicati o semi-duplicati; molti anni fa il Victoria and Albert Museum vendette una serie di sedie a un re africano credendo che fossero cattive copie del XIX secolo: erano invece una rara commissione del doge Paolo Renier della metà del ’700: troppo tardi per ricomprarle, nel frattempo erano state trasformate in cornici di specchi e sgabelli.
- Vendere sulla base di criteri di scelta dettati da mode, preferenze di mercato e gusti collezionistici, che nel tempo cambiano anche radicalmente, vuol dire per un museo perdere la cognizione dell’indispensabile dimensione temporale del proprio agire.
- Vendere opere per un museo significa perdere la propria credibilità; comportarsi come privati collezionisti distrugge la missione tipica dei musei di conservare nel tempo, nell’interesse della comunità.
Sistema Museale Nazionale
Vasti depositi, tecnologicamente attrezzati, allestiti ad arte, aperti alle visite, dotati di spazi, personale e tecniche per proporre mostre a rotazione su tematiche e soggetti anche popolari, saranno una rete indispensabile per tutti i musei italiani, grandi e piccoli. Il ministero per i Beni culturali potrebbe offrire a tutti i musei italiani una simile rete di strutture-deposito, se abbiamo la vista lunga e se vogliamo lavorare davvero a un Sistema Museale Nazionale, inclusivo dei musei di tutte le proprietà, pubblici e privati, purché accreditati sulla base di requisiti orientati al «servizio pubblico».
Apriamo dunque i depositi: agli artisti, ai ricercatori, alle scuole, al pubblico tutto.
(L’autrice di questo articolo, storica dell’arte, ha diretto per 25 anni il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Dal 2009 al 2012 è stata presidente di Italia Nostra)