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La città è l’ambiente migliore per sperimentare la teoria della complessità. La città, organismo dinamico eppure fisicamente definito, sfuggente e strutturato, che può essere inclusiva ma anche escludere, ridurre o accentuare le disuguaglianze. È da qui che un’insolita coppia di studiosi — un fisico, Franco Vaio, e un urbanista, Sergio Bertuglia, entrambi docenti a Torino — parte per riflettere sulle poliedriche forme della città e per tracciarne una storia alla luce di questo criterio: quanto nelle sue trasformazioni si tiene in conto la sua complessità, comprendendo il benessere dei suoi abitanti, quanto, invece, si mira ad altro, a farne un luogo dal quale estrarre ricchezza, puntando alla rendita che quelle trasformazioni garantiscono ad alcuni, alla brillante remunerazione di un investimento.
Nasce così Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri) ottocento pagine in cui sfilano le grandi ristrutturazioni di fine Ottocento, la Parigi di Hausmann, le città-giardino e quelle del modernismo, la Vienna rossa e la Mosca dopo la rivoluzione. E quindi si arriva alla controversa Torino postindustriale e alla Roma che va disperdendosi in un vastissimo territorio. Ma poi si torna al punto di vista di chi vive la città, alle riflessioni di Georg Simmel e di Max Weber, alle passeggiate di Charles Baudelaire e Walter Benjamin, alle indagini di Kevin Lynch sulla percezione e l’immagine della città, intrecciate con quelle che Christian Norberg-Schulz compie sul senso dell’abitare e sul carattere dei luoghi, il genius loci.
Gli approfondimenti antropologici e sociologici che spesso sfuggono a chi disegna il futuro di una città portano Bertuglia e Vaio ad auspicare una rifondazione dell’urbanistica «che deve assumere un respiro culturale multidisciplinare e non limitarsi a un repertorio tecnico». Tutto questo proprio mentre di urbanistica si occupa anche la procura di Roma che indaga su nuovi insediamenti frutto di contrattazioni di cui beneficia la rendita che costruttori rincorrono elargendo agli amministratori pubblici munifiche mazzette.
(Bertuglia e Vaio hanno lavorato a quattro mani. E insieme rispondono alle domande).
Non è da ora che la città ha perso molti caratteri simbolici per diventare lo spazio in cui agiscono interessi economici.
«Ciò è avvenuto dall’inizio della rivoluzione industriale. Prima la città era un luogo concentrato sulla propria anima, così come la raccontavano i filosofi, un luogo eletto nel quale era bello e comodo vivere, un bene appartenente alla comunità dei cittadini. Il sociologo francese Henri Lefebvre parlava di "città opera". Pian piano, in forme diverse, la città è diventata il luogo che deve favorire funzioni economiche. Prima di tipo produttivo, ora finanziarie».
È quello finanziario il profilo dell’odierna città globale?
«Dall’estremo Oriente agli Stati Uniti è evidente il formarsi di una rete di città legate fra loro più di quanto esse non lo siano con i rispettivi territori di appartenenza.
Su questo sono fondamentali le pagine di Saskia Sassen. La fabbrica fordista otto-novecentesca è scomparsa ed è subentrata la produzione di ricchezza finanziaria, alimentata dai flussi immateriali di informazioni e di altra ricchezza che circolano nella rete delle città globali».
È in questo contesto che inserite la rendita come motore delle trasformazioni urbane?
«La rendita urbana non è un fenomeno legato all’incontro fra domanda e offerta, come è sempre stata la rendita fondiaria. È il di più di valore che il proprietario di un’area incamera senza far nulla, senza attività imprenditoriale, senza rischio, solo perché l’area da agricola viene dichiarata edificabile dall’amministrazione pubblica. Se lasciata senza regole, la rendita urbana è la degenerazione dei meccanismi fondamentali dell’economia e causa un enorme aumento del valore dei suoli e poi degli appartamenti».
Restiamo in Italia. È questo il motore che ha fatto crescere le città e che ancora le fa crescere?
«Non sempre e non dappertutto. Certamente più nelle grandi città che nelle medie e piccole. Basta osservare molte periferie, non quelle di edilizia pubblica: la loro scarsa qualità è il frutto di queste procedure. E tanti insediamenti che ora si realizzano seguono la stessa logica, sia che nascano su suolo libero, sia che si ricostruisca su aree dismesse. Si tirano su edifici, ma non si fa la città, che è appunto un organismo complesso, costituito di tante parti private, ma il cui carattere vero è fornito dagli spazi pubblici. Va aggiunto che i tentativi di mettere sotto controllo la rendita, con i comuni che acquisiscono le aree sulle quali poi i privati avrebbero costruito, e che mantengono il controllo sulle stesse aree, sono sempre falliti».
Pensate alla legge promossa dal ministro dc Fiorentino Sullo all’inizio degli anni Sessanta?
«Sì e anche al fuoco di sbarramento che si sollevò per bloccarla e che ha sempre impedito che si varasse una legge equa sui suoli, che liberasse la crescita della città dalla produzione di rendita. La legge Sullo ricalcava pratiche diffuse nell’Europa liberale e socialdemocratica».
Ci sono esperienze italiane in controtendenza?
«Ne raccontiamo diverse, come diversi sono stati i protagonisti dell’urbanistica negli anni scorsi. Per i suoi libri e per l’attività di pianificatore ha molto rilievo Leonardo Benevolo: il lavoro condotto a Brescia dalla metà degli anni Settanta, sia nel centro storico sia nei quartieri di edilizia pubblica, resta un esempio virtuoso. Ma segnaliamo anche il piano paesaggistico della Sardegna realizzato da Edoardo Salzano e il progetto per i Fori a Roma, una grande idea patrocinata dal sindaco Luigi Petroselli che prevedeva di eliminare la via dei Fori imperiali, la conservazione di un patrimonio culturale e aveva una forte valenza urbanistica, corrispondendo a un’idea di città lontana da quella della speculazione che aveva dominato Roma».
Un progetto finito nei cassetti.
«Sì, ma non morto. Potranno togliere i fiori, ma non eliminare la primavera, diceva Pablo Neruda».