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 2019  aprile 11 Giovedì calendario

Intervista a Luca Cordero di Montezemolo

La Ferrari sta vivendo un momento magico. Una fase storica decisiva, sospesa tra presente e futuro, stracolma di opportunità ma anche di rischi». Per questo motivo, Luca Cordero di Montezemolo, cinque anni esatti dopo il suo burrascoso addio a Maranello, ha deciso di rilasciare questa intervista, e di parlare del proprio rapporto con l’azienda alla quale è stato legato per quasi trent’anni, del ruolo che questa ricopre nel Paese, delle sfide che dovrà affrontare nei prossimi mesi. Oltre che di Formula 1. «Non mi capitava da tempo di parlare così in profondità di Ferrari, ma la passione e l’amore nei confronti del Cavallino sono ancora troppo forti. Dopo la mia famiglia è la cosa più cara che ho avuto».

Avvocato, perché parla di "momento magico"?
«Le aziende sono come le persone. Attraversano periodi nei quali la posta in gioco è più alta che in altri. E questo periodo è particolarmente importante, per la Ferrari. Perché si trova ad affrontare tre sfide fondamentali - quella sportiva, quella industriale e quella finanziaria - da cui dipende molto del proprio futuro. La cosa positiva è che ha ottime chance di successo».
Partiamo da quella sportiva.
«Questo è un anno in cui la squadra si trova nelle condizioni di poter lottare fino all’ultimo metro per vincere il Mondiale. Ed è da troppo tempo che non le capitava».
Beh non è esattamente così, lo scorso anno Vettel per larghi tratti ha avuto la macchina più veloce e se non fossero stati commessi errori…
«Sì ma sono stati commessi. E quindi il Mondiale è finito con largo anticipo, come negli anni precedenti. Quando io dico "lottare fino all’ultimo" intendo essere davvero in grado di vincere il Mondiale fino all’ultimo metro dell’ultima gara, la situazione in cui si trovò Massa nel 2008 o Schumacher nel ’97 a Jerez. Ecco, le condizioni per tornare a quel livello di competitività quest’anno ci sono tutte. La squadra è forte, Binotto (Matteo, il team principal, ndr) è un ragazzo serio, preparato, intelligente. La macchina è ottima. E i piloti sono fortissimi».
La macchina è sembrata lenta in Australia e fragile in Bahrain.
«L’Australia è sempre stato un circuito poco rappresentativo. Sulla fragilità io la penso come Enzo Ferrari: a inizio stagione è meglio una macchina veloce ma fragile che un carro armato piantato in terra. Sull’affidabilità si può lavorare. Su una macchina lenta, no».
Non c’è il rischio che scoppi la coppia Leclerc/Vettel?
«Leclerc mi ha stupito molto sin qui, non solo è molto veloce ma è anche uno che sbaglia poco. E questo non è scontato. Vettel è uno velocissimo, specie sul giro secco. Però potrebbe soffrire psicologicamente un compagno aggressivo. La tenuta della coppia è una delle incognite, ma confido nell’intelligenza dei piloti e in Binotto. Che dovrà imparare a giocare ‘sul campo pesante’. Ricordo certe riunioni ai tempi di Schumacher in cui fui costretto a dire cose molto dure a Barrichello: ‘Rubens se vuoi fatti una squadra tua… Noi dobbiamo puntare su Michael che è più veloce di te. E questo lo sai anche tu’. In realtà Binotto corre anche un altro rischio».
Quale?
«Quello di non trovare interlocutori dentro l’azienda. Ai tempi in cui la Ferrari vinceva, Ross Brawn aveva come capo Jean Todt, e sopra Jean Todt c’ero io che comunque vantavo un’esperienza trentennale in Formula 1. Ero entrato nel ’73 come assistente di Enzo Ferrari, nel ’74 ero direttore sportivo, nel ’75 vincemmo il Mondiale con Lauda. Binotto è in una condizione diversa. John Elkann non ha esperienza di F1 e non ha mai gestito un’azienda in vita sua, mentre Louis Camilleri è un grande manager. Ma è un uomo di finanza che, per di più, sarà molto impegnato sul fronte industriale, visto che c’è l’intera gamma da rinnovare».
La seconda sfida...
«Esattamente. Importante quanto la prima se non di più. Di certo più rischiosa. Tutte le macchine che ci sono adesso sono arrivate alla fine della loro evoluzione. E adesso devono cambiare. È finita l’era di Pininfarina e deve iniziarne una altrettanto audace e vincente. Non è una cosa da poco. La sfida si gioca su due fronti: quello estetico e quello tecnologico. Sul piano estetico, il dna non dà scampo. Il mantra è innovare nello stile ma mantenere ferme quelle caratteristiche che fanno della Ferrari una vettura unica, curare i dettagli, il cruscotto, le prese d’aria in modo che sia chiaro che Maranello non segue le mode del design. Semmai le crea. Ma la vera partita è quella tecnologica, dove un’azienda come questa è condannata ad essere all’avanguardia».
Pensa a una Ferrari elettrica?
«No, a questo non ci credo. Piuttosto sono convinto che occorra puntare di più sull’ibrido. Un tema sul quale in Italia siamo ancora troppo indietro. L’unica vettura di tutto il gruppo Fiat Chrysler con quella motorizzazione è la LaFerrari che facemmo noi nel 2012. Bisogna continuare su quella strada, con un motore dalle prestazioni stupefacenti. E quando parlo di prestazioni non intendo solo la velocità di punta o l’accelerazione. Ma anche la sicurezza, i freni, e la sostenibilità ambientale».
Una Ferrari a impatto zero?
«A impatto zero forse no, ma con materiali studiati per essere sostenibili e con un’attenzione rinnovata a una tematica cruciale per il futuro. Il tutto sempre rimanendo se stessi: la Ferrari non potrà mai essere una Tesla. E questo è un elemento cruciale: la forza del brand. I brand sono qualcosa da maneggiare con cura, con i guanti bianchi, che tradotto in termini industriali significa cultura aziendale, attenzione e conoscenza. Anche perché se in pista, oltre la Mercedes, non mi sembra ci siano altri concorrenti di livello, sul mercato, gli altri si stanno facendo sotto. La Lamborghini di quel grande manager che è il mio amico Stefano Domenicali va fortissimo, la McLaren ha conquistato importanti quote di mercato, l’Aston Martin, l’Audi, la Porsche…».
A proposito di mercato non trova grave che l’Italia sia così indietro sull’ibrido?
«Certo, ho letto che i Carabinieri hanno appena preso 250 Toyota ibride, io stesso ho comprato una Renault Zoe completamente elettrica. Se penso che la Marelli è diventata giapponese non può che incupirmi l’idea di un Paese che si spoglia dei propri gioielli e si ritrova in perenne ritardo».
La terza sfida è quella finanziaria.
«Anche se adesso è quotata in Borsa, la Ferrari rimane una straordinaria operazione industriale. E per questo ha bisogno di grandi investimenti e risorse. Quindi, pur rispettando le esigenze di bilancio di una quotata non si può non cercare un punto di equilibrio con le necessità industriali».
La fine della sua esperienza in Ferrari fu difficile, anche per via dei suoi rapporti con Sergio Marchionne. A distanza di dieci mesi dalla sua scomparsa che ricordo ha di lui?
«Mi piace ripensare a quando ci siamo conosciuti nel Cda della Fiat. Viveva in Svizzera e diceva che l’Audi era nettamente migliore della Ferrari Four. Poi divenne un malato del Cavallino, e se le comprò praticamente tutte. Eravamo due persone molto diverse ma per certi aspetti anche complementari. Era uno straordinario uomo di finanza, sapeva convincere i mercati e ha dato grandi soddisfazioni agli azionisti pur tenendo bassi gli investimenti sui modelli. In Italia è riuscito a vendere macchine che non si compravano nemmeno gli americani. Poi dopo la quotazione le cose cambiarono, e iniziò un periodo di cui preferisco non parlare».
Dica la verità: ha una nostalgia tremenda.
«Certo che ho nostalgia. Ma non tanto del mio ruolo, quanto piuttosto di tutto quello che ruotava intorno a quella fabbrica, la gente, i manager, persone eccezionali come Amedeo Felisa (l’ex ad). E poi il territorio, il cibo, l’atmosfera. Non c’è stata una mattina che non sia entrato in Ferrari contento di farlo. Anche perché mi rendevo conto che quell’azienda per l’Italia era, ed ancora oggi è, molto di più di una fabbrica di automobili. In un Paese sempre più litigioso,diviso, spaccato, illogico, era ed è uno dei pochi elementi di condivisione pacifica. Il calcio separa, la politica separa. La Ferrari no. La Ferrari è una ‘bella cosa italiana’, amata e riconosciuta in tutto il mondo: per questo me la porterò sempre addosso, come un tatuaggio».