10 aprile 2019
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Biografia di Barbara Alberti
Barbara Alberti, nata a Umbertide (Perugia) l’11 aprile 1943 (76 anni). Scrittrice. Sceneggiatrice. Conduttrice radiofonica. Personaggio televisivo. «Scrivo perché non so cantare. Le arti pure sono musica e pittura, la scrittura è la più esposta ai pettegolezzi del razionale. Però anche nello scrivere, se ti lasci andare, c’è il miracolo dell’uscita da sé. Nella vita sono la scimmia della mia scrittura. Di lavoro però ne ho anche un altro, la casalinga. Ho il callo della penna e quello della scopa. Se ti fai una famiglia, devi badare alla tana. Mi piace pulire perché è un lavoro che riesce sempre. Entri in una stanza disastrata, metti in ordine, e tutto si trasforma. Le idee migliori vengono quando non ci pensi, magari mentre sbatti i tappeti» • Dice di sé: «Barbara Alberti è nata in Umbria, fra angeli e diavoli. È grata alla pessima educazione cattolica, cui deve la sua ispirazione. […] A 15 anni è venuta a Roma, che ha odiato a prima vista». «Il padre era un professore di matematica, ma era soprattutto un giocatore di poker. […] “La mamma era molto gelosa, ma non aveva torto. Lei aveva un investigatore privato per seguire le mosse di mio padre. Un giorno, mio padre le dice che doveva andare a fare i fanghi ad Abano. Lei finge di crederci e corre dall’investigatore, il quale scopre che mio padre era a Venezia con l’amante”, racconta la Alberti. “L’investigatore scopre che papà era con la migliore amica della mamma. Sta per svelare tutto, ma mio zio lo ferma e lo paga perché menta. Così s’inventano una rivale con cui mia madre non poteva confrontarsi, ovvero una colombiana che si era fatta tutta l’armata. E quindi il detective convinse mia madre a stare a casa. E, quando mio padre tornò, lo prese a schiaffi”» (Stella Dibenedetto). «L’amore per la scrittura nasce come nascono le cipolle: per caso. Ti trovi verso i cinque-sei anni a imparare a scrivere, e capisci che lo farai per sempre. Vedi il miracolo dei tuoi segni, delle tue tracce che si animano sulla pagina, e comprendi che con un fogliettino tutto è possibile. Ai miei tempi, ricordo, a scuola si scrivevano i “pensierini”, e io da subito avvertii che si trattava di un grande gioco: presagivo che se avessi potuto concepire pensieri più complessi e articolati avrei avuto la possibilità di vivere tante vite, tutte le vite che sarei stata capace di immaginare e scrivere». «A dieci anni […] ci trasferimmo a Santa Maria, e la mattina una corriera ci portava ad Assisi, dove c’era la scuola. La nonna, una fondamentalista armata di rosario, mi aveva cresciuta col terrore di un Dio minaccioso e spione, e me lo aveva fatto diventare molto antipatico. Quanti schiaffi ho preso nel suo nome! A sentire lei, Dio ci aveva proibito tutto. Era peccato amare, pensare, ridere soprattutto. Una cosa sola ci poteva salvare: obbedire, e zitti. Chiedevo: “Ma allora che ci ha creati a fare?”. E lei “Zitta, ché Lui ti punisce!”. Intanto mi puniva lei. Mi mandava a scuola dalle suore, che picchiavano le orfane. Francesco fu una rivelazione. Un santo che si definiva un pazzo di Dio, che rideva di sé, che aveva fatto del riso la sua preghiera. Marinavamo la scuola e andavamo a fare la comunione a Santa Chiara, oppure, sulla collina, dalle Piccole sorelle di Charles de Foucauld, a lavorare l’orto o aiutare in cucina. Non parlavano mai di religione, la praticavano. Però non ho più creduto in Dio» (a Silvia Guidi). «Studi a Roma, il liceo e poi l’università e la laurea in Filosofia (“ma allora, ormai, la filosofia la consideravo una truffa”) con una tesi sul "concetto della libertà in Sartre". […] Tre anni di lavoro come insegnante di lettere, in una borgata, e intanto aveva iniziato a lavorare per il cinema. Era cominciata così: una sceneggiatura dei Fiori blu di Queneau piacque tanto anche all’autore del romanzo che offrì un’opzione gratuita sulla realizzazione cinematografica. Il film non sì fece mai, ma la sceneggiatura attirò su Barbara Alberti e suo marito l’attenzione del cinematografari. Tra le altre sceneggiature, quelle di Portiere di notte e del Maestro e Margherita (il primo dei due film non le piace, del secondo si vergogna). Poi, naturalmente (anzi: prima), c’è lo scrivere. “Non ho mai saputo tare altro. Da bambina raccontavo storie a tutti, e tutti dicevano che ero una gran bugiarda. Ma non erano bugie, anche se non riuscivo a farlo capire. Il primo romanzo l’ho scritto a sedici anni, un romanzo contro il potere, molto infantile, lo ammetto. Poi ho scritto […] altri romanzi, e ogni volta, debbo dire, mi sembra sia andata meglio. […] A 30 anni […] ho scritto […] Memorie malvage”. Perché malvagi, questi ricordi? “Perché sono stata educata dai cattolici: fino ai vent’anni ho vissuto in un Lager cattolico, a contatto quotidiano col diavolo, in un mondo in cui l’immaginazione è una colpa. Allora ho scritto questo libro, per esorcizzare il passato. No, meglio: per esorcizzare il presente. È, questo libro, un tentativo di risolvere quella dicotomia propria del mondo occidentale, quel netto distacco tra immaginazione e realtà che nessuno accetta di negare”» (Franco Mimmi). «Sono, in Memorie malvage, le storie della Torre e di nonno Umberto, e non si stenta a riconoscere i segni dell’antico paese da cui Barbara proviene, la medievale Fratta, che […] nel 1863 fu riappellata Umbertide. […] Gente feroce questi antenati-parenti, abitatori di una torre gotica che di notte “copriva le stelle” e le cui radici arrivavano, per certi sotterranei senza eco, fino all’inferno. Nonno Umberto “giustiziava” le bestie, era un macellaio-uccisore: è una figura che tornerà ossessiva, in un romanzo successivo, Donna di piacere. La nonna di casa “malvagia”, Santina, una creatura secca e senza amore, oltre un marito, aveva tre nemici: “gli altri”, i bolscevichi e il diavolo. La piccola protagonista (Barbara), cresce superando tutte le astuzie del demonio: nella solitudine finge la sua assenza, ma sotto la coltre del battito dell’orologio avverte il suo respiro sordo. Speculare alla casa-Torre dei nonni, in fondo al viale dei tigli, è la casa Rossa: qui abitano gli altri nonni, Quintilio e Isadora, “ubriaconi senza rancore, bestemmiatori senza disperazione”. […] Per tornare alle “storie della Torre”, nonno Umberto non vide mai nuda nonna Santina, dal momento che “[…] il corpo di lei nascondeva caverne dure. Le sue ossa si incrociavano in una promessa di morte”. Ma da questi tristi amori nacque Leonilde, la madre di Barbara, “bella e cattiva”. Tra gli altri figli, un Italico, nato cieco: “Suonava l’organo in chiesa e faceva piangere i peccatori”. […] Tutto il paese (Umbertide) sprofonderà alla fine all’inferno, la cui apertura […] era proprio sotto la cantina Baldassarri [casa dell’autrice – ndr]. Romanzo di ribalderie, lo definirà Cesare Zavattini, precisando che il libro era da considerarsi di valore “[…] perché tutto ciò che succede è appunto vero e non vero, la realtà è il vero che non è vero e viceversa con altri viceversa instancabili fino all’alba fino al tramonto e anche dopo”» (Stefano Ragni). «Brillante esordio, Memorie malvage (1976) […] vinse il premio “L’inedito” e rimane forse il suo libro più felice anche nelle ingenuità stilistiche, mosaico di favole truculente, percorse da sortilegi, incantesimi e sfrenate diavolerie. […] Nei libri successivi, Delirio (1978) e Vangelo secondo Maria (1979), non aveva mantenuto le promesse, scadendo nel manierismo e nei furori femministi. Chiara, la protagonista di Donna di piacere (1981), finiva in un bordello di provincia per inseguire l’estasi di un piacere celeste» (Massimo Romano). «Nel ’98 ecco gli “ottanta ritratti ingiusti e capricciosi” di donne che vengono raccolti da Barbara nel volume La donna è un animale stravagante davvero. La citazione proviene da una fonte librettistica tra le più note dell’Ottocento risorgimentale e borghese, il libretto dell’Elisir d’amore che Felice Romani approntò nel 1832 per la musica di Gaetano Donizetti. […] La stessa autrice, in una sorta di proemio, chiarisce le sue motivazioni: “Questo è un libretto d’opera, fatto per essere cantato. È un delirio in musica. Sono entrata come in sogno nella vita di 80 donne, con tutti i mezzi (satira, favola, epistola, teatro, mito). A volte con l’aiuto di Don Giovanni e Leporello, compagni ideali”. […] Nel 2002, col titolo Gelosa di Majakovskij, la Alberti produce un “vita e morte” del poeta della rivoluzione russa raccontandole come un rapporto di polizia segreta redatto da una spia innamorata. Io narrante del romanzo è Nikita, la “spia innamorata”, appunto, che sorveglia lo scrittore per conto della polizia zarista prima e sovietica poi. Accanto a lui, accecate a traviate dalla medesima gelosia, agiscono due donne, la sorella di Majakovskij, Ljuda, e l’amante Lili Brik: “In un crescendo tragico Nikita, il Gobbo, applica la sua ironia ai personaggi, a se stesso, a chi legge. Il ‘gigante’ Majakovskij incontra Pasternak, la Cvetaeva, Lenin, ma soprattutto Puškin, avanguardia dell’avanguardia, morto alla sua stessa età e come lui tradito dalle donne. E si scontra con il suo rivale, il poeta contadino Sergej Esenin, suicida a trent’anni (un falso clamoroso). Incontra anche (sono i tempi del dottor Živago) il modello di Lara, Larisa Rejsner, la dea ventenne che guidava gli eserciti. L’Autrice, un po’ intristita dal tempo nostro dove tutto si pretende logico e gli scrittori sono così assennati (lei compresa), è andata a stare in un mondo più vivo e pericoloso, dove l’arte è l’arte e si gioca la vita – tutto a tempo di tango”» (Ragni). Tra gli ultimi libri pubblicati, Sonata a Tolstoj (Baldini Castoldi Dalai, 2010), La guardiana del faro (Imprimatur, 2013) e Non mi vendere, mamma! (Nottetempo, 2016), quest’ultimo sul tema della maternità surrogata. «Non so per quale mostruoso motivo questa battaglia per l’utero in affitto passi come una battaglia di sinistra o, meglio ancora, come una battaglia libertaria. Questa è l’ultima frontiera della schiavitù. Una schiavitù che forse non è mai esistita neanche quando la schiavitù era legale. Nichi Vendola, che era un comunista, mentre oggi è un signore come tutti gli altri, quando parla di atto d’amore mi lascia davvero senza parole. Sostiene che la signora che portava in grembo il suo bambino era felice, ma chissà se lo era anche quando le portavano via la creatura. Stiamo diventando tutti schiavi di una mentalità capitalistica, e quello che mi fa davvero incazzare è che troviamo normale questa cosa» (ad Alessio Poeta). Parallelamente, la Alberti ha continuato anche a scrivere sceneggiature cinematografiche (Monella di Tinto Brass, Melissa P. e Io sono l’amore di Luca Guadagnino, Incompresa di Asia Argento, L’uomo che comprò la Luna di Paolo Zucca), a condurre programmi radiofonici (La guardiana del faro, Radio 24), a partecipare a popolari trasmissioni televisive, spesso in veste di polemista, e a curare rubriche di posta su varie pubblicazioni (Amica, il Fatto Quotidiano, Gioia, Confidenze) • «Ha scritto libri, sceneggiato film, condotto programmi, dato consigli a lettori e lettrici di diverse generazioni, lottato contro banalità varie ed eventuali seduta nei salotti televisivi più diversi. Il piccolo schermo l’ha cercata e resa nota, riconoscibile. E Barbara non si è risparmiata: davanti alle telecamere ha strizzato l’occhio ai generi narrativi più diversi. Ha letto brani di Alberto Moravia, commentato l’attualità politica, discusso con Vittorio Sgarbi e Alessandra Mussolini, fatto l’opinionista di reality show. Nell’ultimo nato dei talent, Celebrity Masterchef, è stata addirittura concorrente, ennesimo esperimento spiazzante per quella élite culturale che da anni la considera insieme alleata e rivale, amica e aliena. Alberti fa spallucce: sa di essere uno stupendo animale comunicativo impossibile da catalogare, con buona pace dei puristi della letteratura e del cinema. E dei bacchettoni. “Non parlatemi di contraddizioni, vi prego: detesto lo snobismo, la retorica non mi appartiene”, spiega. […] È stata la prima scrittrice di livello a non aver paura a contaminarsi con la televisione pop. È una coraggiosa, una pazza o entrambe? “Nessuna delle due. Mi vogliono in un certo tipo di programmi e agisco di conseguenza. Per me andare in tv è un lavoro: lo faccio per denaro. Certo, se fossi ricca, starei rintanata in casa”. Non si diverte? “È come partecipare a un’operetta, è teatro puro. Se fosse per me, farei solo radio”» (Pierluigi Diaco) • Sposata (ripetendo in più occasioni la cerimonia per accontentare vari parenti, senza aver mai divorziato) con il produttore e sceneggiatore Amedeo Pagani, da cui ha avuto Samuela («Per amore verso l’ebraismo. Intendiamoci: inteso come cultura. Poi si cambia idea»), orientalista, e Malcom («Come Malcolm X»), giornalista • Ha dichiarato di aver avuto alcune relazioni lesbiche in passato. «Le donne, sessualmente, sono molto interessanti. Conoscono il loro corpo meglio di qualsiasi uomo. Personalmente, in amore, mi sono annoiata molto con le donne. Son state tutte terribilmente noiose. Avevano un’impostazione troppo eterosessuale, fondata sulla gelosia. Sarò capitata male» • «L’unica volta che ho amato un giovane non sono stata all’altezza, perché gli facevo pesare la sua età: ero troppo orgogliosa, non ero abbastanza innamorata da passarci sopra, quindi gli ho rotto le palle. Mi ha rincontrato dopo un po’ di anni e mi ha detto: “Che peccato, ti ho amata tanto, e tu mi hai rovinato la vita con questa storia dell’età”. Per questo oggi consiglio alle donne che si innamorano di uomini più giovani di non rompere le palle e di non fare pesare la differenza d’età». «Quello che mi seduce in un uomo è la bontà, che è creativa, avventurosa, coraggiosa, non è mai simile a se stessa. Hanno messo in giro la voce che alle donne piacciono i mascalzoni, ma non è vero, perché sono noiosi e fanno sempre le solite tre cose, ovvero tradire, pugnalare alle spalle e mentire» • «Berlusconi l’ho odiato con tutte le mie forze, ma Renzi lo detesto ancor di più. Da un avventuriero brianzolo mi aspettavo quel che è accaduto, ma da Renzi no. Poi, a dirla tutta, non mi piacciono neanche tutte queste false primine della classe di cui si circonda. Preferivo persino le mercenarie dell’epoca berlusconiana». «I Cinque stelle? “Ci avevo sperato, e tanti con me. Si ha nostalgia della purezza. Vivo a Roma, ho votato Raggi. Che non fosse un’aquila si capiva, ma pensavo avesse intorno una schiera di ragazzi pieni di slancio che la aiutassero: li confondevo con i radicali dei tempi eroici. Inutile dirti come la città sia sprofondata”. […] Lei è stata iscritta al partito radicale. Si iscriverebbe adesso? “Subito. È l’unico che potrei votare senza vergogna”. […] Ha definito le pene per chi stupra ridicole. Quale sarebbe secondo lei una pena equa per chi commette un femminicidio? “Bisognerebbe riconoscere lo stato di emergenza. È il tipo di delitto più frequente. Se fossimo noi ad ammazzare duecento maschi all’anno, fioccherebbero gli ergastoli. Uccidere è un atto titanico, un esorcismo dell’assassino verso la propria morte. È l’atto primario di chi rinnega il patto sociale. Il delitto è un atto estremo, e va onorato con una pena adeguata. Ho orrore della pena di morte quanto dell’indulgenza verso l’assassino. C’è dietro lo stesso disprezzo verso la vita umana, la stessa sorda immoralità”» (Flavia Piccinni) • «Tutti noi mistici miscredenti vogliamo solo tornare dai preti, perché sono gli unici che studiano. La Chiesa non ha mai smesso di coltivare il sapere. Prima studiavano anche i comunisti, e in passato hanno tirato su generazioni di galantuomini eroici e preparati. Adesso della sinistra non rimane neanche il nome. Io sogno che un giorno Gramsci esca dalla foto che hanno l’impudenza di tenersi in sezione, e li bastoni. Solo il giullare Francesco ci ricorda la giustizia sociale, e un Papa che non a caso ha preso il suo nome» • «Lei odia la chirurgia estetica. Odia la tecnologia. Odia i social network. “Confermo, confermo tutto: per carità, l’idea che la bellezza sia omologazione e la conoscenza possa essere sostituita da un clic mi spaventa tantissimo. Pensi che non ho nemmeno un profilo Facebook”. Tono brillante, piglio sicuro, ritmo veloce, quasi da rapper (raffinata) della parola, Barbara Alberti è veloce. Il suo cervello è allenato e temprato dai continui cambi di registro, alto e basso, bassissimo e altissimo, altalena continua, nella vita e sul lavoro, un po’ come la sua voce teatrale e i capelli raccolti in una treccia che le cinge la testa: un marchio di popolarità» (Diaco). «Magrissima, con degli occhi che sono spilli» (Piccinni) • «Geniale scrittrice ingiustamente trascurata» (Natalia Aspesi). «È matta, felicemente, gioiosamente pazza. Trucca il suo passato, ma lo trucca in peggio. Ha pudore della sua generosità, della sua intelligenza, e racconta tutto ciò che la fa apparire nella luce peggiore. Una forma perversa di narcisismo. La velocità folle delle sue frasi sembrerebbe indizio di confusione, invece vuol dire grande voglia di comunicare e supremo trionfo del dubbio. Sfido chiunque a prendere appunti mentre parla» (Claudio Sabelli Fioretti) • «Da giovane scriveva solo di notte, dopo la nascita del primo figlio ha scoperto il mattino: “È più santo e visionario del buio, al mattino il mondo è intatto e tu pure: quelle ore purissime dalle 6 alle 9, nessuno ti ha ancora offeso, nessuno pretende niente da te”. Il suo studio è in mansarda. “Ho una soffitta tutta per me che mi ripara solo un po’, gli affetti (umani, cani, gatti) mi configurano nettamente nello spazio. Questa soffitta è una nave che finge di navigare, ma è ancorata al porto”. La sua isola è lo scrittoio: “Un tavolo povero, da studenti. Ripiano di legno, due cavalletti”. Cosa non deve mancare sullo scrittoio? “La luce calda e rotonda di un abat-jour sul foglio a quadretti, thermos-biberon, la penna Pilot che corre”. Il computer? “Viene dopo. Prima lavoro da artigiano – penna, carta, forbici, colla –, poi copio. Il computer è uno strumento di perfezione, che permette un’infinita scultura della frase: non so più scrivere senza quella finale perfettibilità”. […] Qualche rimpianto? “Quanti libri non scritti mi saranno costati la famiglia e la pulizia della tana? Ma chissà che mostro sarei diventata senza il bisogno di stringermi a delle creature. I figli ti obbligano a dare, salute infinita. Fra le astuzie della natura è la più riuscita”. Metodica, quasi maniacale: “Sarei così disordinata che sono ordinatissima. Più ordine c’è intorno, più le parole si fanno audaci. Prima di lavorare pulisco bene la stanza, sento l’imperfezione anche alle spalle”» (Alessandra Burigana) • «Perché avere una rubrica sempre aperta con l’universo femminile? “Pensi che più lo faccio e meno mi capisco. Le donne parlano. Raccontano i cazzi loro. Le donne lottano per essere infelici. Le donne ridono. Il mondo non finirà mai perché le donne lo raccontano”. Ne ha mai conosciuta qualcuna? “I primi tempi ero molto incosciente. Le facevo entrare tutte in casa ogni qual volta che mi manifestavano il desiderio d’incontrarmi. Poi, man mano, mi sono risparmiata. Una volta arrivò a casa mia una pazza, di circa sessant’anni, tradita dal marito con una ragazzina più piccola. Lei lo rivoleva di prepotenza e voleva che io lo convincessi. Un’altra volta, invece, arrivò una donna bellissima, grande anche lei, che si stava distruggendo con le lamette dopo esser stata lasciata da un uomo molto più giovane, con il quale condivideva solo il letto”» (Poeta). «Il tema è perennemente questo: m’ama o non m’ama? E quanto più si tratta di un amore infelice, tanto più appassiona. Più rispondo alle lettere che mi arrivano, più mi stupisco: è incredibile come le persone si adoperino per la propria disfatta, per la propria sconfitta, come si affezionino ai propri inferni. […] Oggi noi donne abbiamo conquistato davanti alla legge la parità con gli uomini, almeno formalmente. Siamo socialmente svantaggiate sotto diversi aspetti, ma nelle cause di separazione bisogna ammettere che veniamo favorite. Eppure le donne continuano a stare con uomini che le maltrattano, continuano ad amare e volere chi non le ricambia» • «Più rispondo sull’amore, meno ne capisco. In ogni caso, è qualcosa che si comprende a posteriori, non mentre si sta vivendo». «L’amore è per i coraggiosi. Tutto il resto è coppia». «Amare vuol dire che tu sei l’altro. Forse capita a pochi, poche volte nella vita, ma l’unico che merita il nome di amore è questo» • «“Il femminismo, così come è inteso da certi ambienti, rischia di diventare un marchio commerciale. E, puntuale ad ogni Festival, ricomincia la passerella”. Prima gli Oscar, poi i David di Donatello. Infine, il Nobel per la Letteratura. […] È una gara tra premi. Il Nobel non vuol essere da meno degli Oscar e si ammanta di un’intransigenza ridicola: non fa niente per le donne, e alla fine va sempre in culo all’arte”. Del femminismo, quello vero, che nel ’68 ha cambiato le leggi, è rimasto ben poco. “Il dogmatismo, forse”, continua la Alberti, che nel pensiero unico dell’èra odierna dice di vedere la stessa ortodossia di un tempo. “Ogni voce fuori dal coro, il mio dire che l’utero in affitto è un abominio, ad esempio, viene demonizzato, oggi come nel ’68. Ma allora le femministe aggressive e le femministe con i baffi l’hanno rivoluzionato, il mondo”» (Claudia Casiraghi) • «Se non mi sono rifatta, non è perché non sono vanitosa, ma è perché sono vanitosissima, di una vanità ributtante, e non voglio aggiungere l’oltraggio del bisturi a quello del tempo. Certo, ci vuole un senso dell’umorismo sempre più spiccato per portare in giro la propria faccia, però mica sei vecchio sempre. La persona libera cambia età molte volte al giorno: siate nonne a quindici anni, fidanzate a ottanta, ma non siate mai quelle che gli altri vogliono».