Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2019
«Il mio cavallo di Troia contro i tumori»
Luigi Naldini è direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano (SR-Tiget). Oggi volerà a Ginevra per ritirare il Louis-Jeantet 2019, noto tra gli scienziati come il “premio dei Nobel”. Da quanto è nato, nel 1986, a oggi, il Louis-Jeantet è stato attribuito a 90 ricercatori: di questi, ben 12 hanno in seguito ricevuto il Nobel per la fisiologia o la medicina, o il Nobel per la chimica.
Naldini porterà a casa anche un assegno da 500mila franchi svizzeri, una dote per continuare a fare quello che fa da oltre 20anni, tra i laboratori americani e le cliniche italiane: attività di ricerca pionieristica nell’ambito della terapia genica. Il team di Naldini ha messo a punto protocolli clinici per la cura di decine di malattie genetiche, sfruttando vettori lentivirali: virus, usati per modificare le cellule dei pazienti per renderle in grado di tornare nell’organismo e rimpiazzare geni difettosi o mancanti.
Naldini, qual è stato il primo pensiero sul Premio?
È un riconoscimento per un intero filone di studi, quello delle terapie geniche, che per anni è stato visto con scetticismo.
Da cosa nasceva lo scetticismo?
All’inizio degli anni 90 furono eseguiti test con una prima generazione di vettori. I risultati furono insoddisfacenti e non mancarono eventi avversi anche gravi. Le aspettative erano alte, e questo generò delusione anche in chi ci aveva lavorato. Nell’ambiente scientifico c’era una battuta ricorrente: “La terapia genica ha tre problemi: vettori, vettori, vettori”. Molti non proseguirono. Noi fummo tra i pochi che continuammo a crederci.
E allora che cosa accadde?
Nel 1996, al Salk Institute di San Diego (Usa), iniziai a lavorare a una seconda generazione di vettori lentivirali, derivati dal virus Hiv. Questi nuovi vettori si dimostrarono subito più efficaci e più sicuri.
Il virus Hiv era usato in laboratorio come un “cavallo di Troia”?
Sì. Erano gli anni in cui si faceva molta ricerca sul virus Hiv. Così, al Salk Institute nacque l’idea di sfruttare la sua capacità di infettare per costruire vettori più potenti.
Una scelta coraggiosa: l’Aids in quegli anni faceva molta paura.
E infatti non è stato un percorso facile. In laboratorio iniziammo a “smontare” il virus fino a farne un potenziale vettore, ma prima di arrivare alla sperimentazione abbiamo dovuto vincere le riserve verso questo “nemico”, anche nell’opinione pubblica. Poi ricevere autorizzazioni, stringere accordi con i primi enti di ricerca, organizzare i primi test. Il processo ha richiesto anni: in clinica, cioè tra i pazienti, siamo arrivati nel 2010. Ed è successo in Italia.
L’avevamo lasciata a San Diego.
Rimasi a San Diego due anni e mezzo. Poi andai a lavorare in una biotech di San Francisco che aveva acquisito i diritti delle mie ricerche: lì ho avuto la possibilità di cominciare a rendere utilizzabile questa tecnica in ambito clinico.
È a questo punto che il cervello “in fuga” torna in Italia?
Sì, rientrai prima a Torino, poi a Milano, dove dal 2008 sono il direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano.
Perché è tornato in Italia?
Negli Stati Uniti ho trovato quello che mi serviva per fare innovazione. Ma l’Italia mi ha offerto qualcosa di altrettanto importante: una rete di competenze unica per avviare gli studi clinici sui pazienti.
Con quali risultati?
Oggi con il nostro sistema di vettori sviluppiamo applicazioni “ex vivo”: le cellule staminali del sangue del paziente vengono prelevate, corrette geneticamente e poi reinfuse. Sono decine le malattie genetiche, alcune molto rare – altre meno, come la talassemia – in cui le cellule staminali del sangue modificate con la terapia genica offrono ampie possibilità di cura. Nel complesso, sono oltre 200 i pazienti trattati con le nostre terapie geniche: persone che avevano poche speranze di sopravvivenza e che oggi conducono una vita normale, spesso libera da malattia.
È finito il tempo dello scetticismo?
Sì. Con i risultati è arrivato anche l’interesse dell’industria farmaceutica: oggi registriamo una vera esplosione, con nuovi progetti che partono ogni giorno. C’è molto fermento.
Anche nell’ambito della ricerca anti-cancro?
Sì, in questo caso il veicolo è utilizzato per inserire nelle cellule del paziente i “car”, ovvero le informazioni ingegnerizzate per la lotta di alcuni tumori. Anche in questo campo le sperimentazioni sono numerose: esistono già farmaci in commercio sviluppati sfruttando le nostre ricerche. Anche le terapie anti-cancro Car-T, di cui recentemente si è molto parlato, utilizzano vettori lentovirali.
Quali saranno i prossimi passi della vostra ricerca?
Vogliamo rendere la terapia genica sempre più sicura e meno aggressiva. Inoltre, abbiamo due trial che stanno per partire per la cura dei tumori: l’obiettivo è modificare con la terapia genica le cellule che il tumore richiama, per renderle visibili al sistema immunitario e quindi bersagli aggredibili. Infine, vogliamo sfruttare le recenti tecniche di editing mirato dei geni: in questo caso non usiamo più i vettori per sostituire o rimpiazzare i geni difettosi, ma sfruttiamo la potenza della manipolazione genetica per correggerli.
Dei 90 ricercatori che hanno vinto il Louis-Jeantet, 12 hanno poi ricevuto il Nobel. Pura statistica?
Nella mia carriera ho avuto la fortuna di completare, negli anni, il percorso che va dalla ricerca in laboratorio al paziente guarito. È un evento molto raro per un ricercatore. Una soddisfazione più grande di qualsiasi premio. Va bene così.