La Stampa, 10 aprile 2019
La prima foto del buco nero
Siamo orgogliosi ed entusiasti di rivelare al mondo la prima straordinaria foto di un buco nero». È carico a mille Ciriaco Goddi, segretario del consiglio scientifico del consorzio «Event Horizon Telescope». Nato a Nuoro, in Sardegna, 43 anni fa, si è laureato in fisica all’Università di Cagliari, dove ha conseguito il dottorato di ricerca. Poi la chiamata a Harvard, la specializzazione a Monaco di Baviera e il posto all’Alma Regional Center a Leiden, in Olanda. Da qui la possibilità di avventurarsi nel deserto di Atacama, nelle Ande del Cile, dove è situato l’«Atacama Large Millimeter Array», il radiotelescopio più potente del mondo, e di «paparazzare» uno sfuggente buco nero. Bocca cucita sui dettagli della «foto del millennio», che solo oggi pomeriggio verrà rivelata, Goddi ci racconta i retroscena dell’esperimento.
Come siete riusciti nell’impresa?
«Mettendo insieme i dati da otto radiotelescopi. Abbiamo elaborato e analizzato la bellezza di circa 4 petabytes di dati. I nostri obiettivi erano due: il buco nero supermassivo che risiede nel nucleo della nostra galassia (Sgr A*) e M87, il buco nero supermassivo di una galassia situata a circa 50 milioni di anni luce. Ci siamo avvalsi di una tecnica molto potente, l’interferometria radio a lunghissima linea di base (Vlbi), che permette di realizzare immagini di radiosorgenti ad altissima risoluzione, in modo da formare virtualmente un enorme telescopio delle dimensioni della Terra».
Come avete messo insieme tutti questi dati?
«Abbiamo utilizzato due super-computer: uno all’Haystack Observatory del Mit, nel Massachusetts, e l’altro al Max Planck Institut fur Radioastronomie, a Bonn. Ci hanno permesso di elaborare i dati grezzi: solo dopo molto lavoro sui nostri computer siamo riusciti a “intravedere” l’orizzonte degli eventi, il confine che circonda i buchi neri dove tutto ciò che passa non torna indietro, e rivelare la cosiddetta “ombra”».
Difficile a dirsi e a farsi?
«È stato come distinguere una pallina da tennis sulla Luna. In realtà, l’incognita più grande sono state le condizioni meteo. Siamo stati fortunati perché abbiamo avuto cieli sereni e con pochissima umidità in tutti i siti, anche se, nella seconda campagna di osservazione, nel 2018, ci sono state non poche difficoltà. Ricordo tre notti di tempeste di neve su Mauna Kea, nelle Hawaii, la chiusura causa vento per quasi due giorni del “Sub-Millimeter Telescope” (in Arizona), il ricevitore commissionato dal “Large Millimeter Telescope” (in Messico) non disponibile da subito per le osservazioni, lo strumento “Atacama Pathfinder EXperiment” non sempre disponibile per cause tecniche. Senza contare che in Messico un commando ha assaltato la jeep degli astronomi».
Perché i buchi neri sono così importanti?
«Rappresentano una delle chiavi per comprendere i misteri dell’Universo. Nonostante la teoria di Einstein descriva generalmente bene l’Universo, potrebbero esserci alcune deviazioni proprio in prossimità di un buco nero a causa dell’estrema gravità. Quindi, la Relatività potrebbe non essere la teoria finale, che, forse, dovremo ancora scoprire».