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 2019  aprile 10 Mercoledì calendario

Intervista a Bryan Ferry

Quanto è difficile essere Bryan Ferry oggi? In teoria moltissimo: l’eleganza di cui il cantante ha fatto un punto d’onore nella musica e nello stile umano sembra un bel ricordo.

Anzi bellissimo, ma solo ricordo. Ora vanno altri comportamenti, per tacere dei sound a lui diametralmente opposti di rap, trap e dintorni. Ma resta uguale a se stesso, a 73 anni, la stessa classe nel rispondere che ha nel cantare, superiore alle miserie del mondo. Ed è pronto a tornare in Italia, per un unico concerto, gratuito, sabato a Foggia, al Medimex, festival organizzato da Puglia Sounds e Regione Puglia: «Non vedo l’ora, me ne hanno parlato benissimo. E poi approfitterò per passare un paio di giorni a Roma, che mi dicono essere lì vicina. È pazzesca, la vostra capitale, in ogni angolo c’è qualcosa di bello, e poi ci sono ricordi leggendari, Marcello Mastroianni, La dolce vita. Vivere a Roma è un privilegio, lo penso dalla prima volta che ho pranzato all’aperto nel ristorante che prediligo, in piazza del Popolo. Ha solo un problema, è troppo aperta, come dire, si offre troppo a tutti. Milano è chiusa, riservata, più da scoprire, ma ammetto che la preferisco anzitutto per lo shopping di moda a Montenapoleone. Per fortuna devo usare la carta di credito solo per me stesso, non avendo una moglie al momento», anche questo un tocco di classe considerata l’infinità di relazioni che ha avuto, su cui ovviamente tace.
Dobbiamo però cominciare per forza dal recentissimo ingresso dei Roxy Music, la band con cui aveva debuttato, nella Hall of Fame del rock’n’roll.
«È successo lo scorso 29 marzo, a New York. Una bella emozione, devo ammetterlo, anche più del previsto. Ma è andato tutto bene perché avevo un po’ della band con me, c’erano Andy Mackay e Phil Manzanera, più musicisti come Chris Spedding, Neil Jason e Fonzi Thornton. Mancavano solo Paul Thompson e Brian Eno, che avevano altri impegni. Ma ci siamo divertiti cantando qualche canzone come In every dream home a heartache, Out of the blue, More than this».
E con i Roxy Music com’è andata? Era otto anni che non facevate niente assieme.
«Devo ammettere che è stato come se fossero passati otto minuti. Feeling immediato, grazie anche a un pubblico caldissimo, che mi ha anche aiutato a gestire la stanchezza, visto che arrivavo da una data in Giappone. Questo tour che mi sta per portare in Italia è davvero mondiale, non sto saltando neanche un continente».
Tutto bello, quindi, ma non crede che, con quel che lei ha fatto sia coi Roxy Music sia poi da solista, il riconoscimento sia arrivato fin troppo tardi?
«Ammetto di non aver pensato alla cosa. I musicisti bravi sono così tanti… Pensi solo che assieme a noi sono stati inclusi nella Hall of Fame i Cure, i Def Leppard, i Radiohead».
Veniamo al concerto italiano allora. Che scaletta ha pensato?
«La scaletta varia a seconda dei musicisti che mi accompagnano.
Per questa data ho scelto artisti un po’ particolari, su tutti una magnifica suonatrice di viola e di violino. Per cui starò sui miei brani più classici, suppergiù metà dei Roxy Music e metà da solista. Con qualche cover come Jealous guy di John Lennon, che è una di quelle che se non eseguo non esco vivo dal locale, come Slave to love d’altronde, e una di Bob Dylan, penso A hard rain’s gonna fall».
Da dove viene questo amore che da una dozzina d’anni mostra per Dylan? Difficile trovare due cantanti più diversi di voi due, a cominciare dalla voce: la sua morbida ed elegante, Dylan una grattugia.
«Vero, ma la musica conta fino a un certo punto, quando le parole sono magnifiche. E Dylan ha scritto così tante canzoni incredibili, davvero pagine di letteratura, che come fa a non venirti voglia di cantarle? E poi è bello evadere dal proprio repertorio, ogni tanto».
Se è per questo, lei si sta divertendo a evadere anche restando se stesso: l’ultimo disco, "Bitter-sweet" è una rivisitazione in chiave jazz anni Venti di diversi successi.
«Il vantaggio di essere vecchio è di aver potuto ascoltare musica fantastica: quando ero ragazzino il jazz di New Orleans era popolarissimo in Inghilterra. Avevo già fatto un disco simile qualche anno fa, The jazz age, con cui le canzoni dei Roxy Music suonavano come in un disco degli anni Venti, tra Louis Armstrong e Duke Ellington. Ora l’ho voluto rifare invecchiando altre tredici canzoni, sia della band che da solista, evitando le più note, come Avalon eSlave to love, e scegliendo Alphaville e Reason or rhyme. Ho cercato di dargli però una sfumatura più europea, dato che il disco nasce dalla fiction Babylon Berlin ambientata nella Germania di Weimar. Nella serie ho anche recitato il ruolo di un cantante di night berlinese».
Che pensa di quel periodo? Qualcuno accosta l’Europa di adesso a quella di allora.
«Confesso che è venuto in mente anche a me: un grandissimo caos politico e sociale, che porta da un lato a grande fermento artistico e dall’altro alla richiesta di sicurezza che sfocia in una dittatura. Ma voglio sperare, e spero, che non andrà a finire così stavolta. Sono di natura ottimista, l’essere umano saprà imparare dai propri errori e non li ripeterà. Certo, se qualche anno fa mi avessero detto che il mondo sarebbe diventato così non ci avrei creduto. Ma la vita è bella perché sa sempre sorprenderti».