la Repubblica, 10 aprile 2019
“L’urlo” di Munch non è un urlo
Il suo “urlo”, la “Monna Lisa” dell’angoscia contemporanea, è diventato così virale negli anni che oggi compare persino tra le emoticon su Whatsapp per esprimere senso di disperazione. Peccato, però, che quello di Edvard Munch, l’opera più famosa dell’artista espressionista e simbolista norvegese, non fosse un urlo, bensì una dubbia figura che si copre le orecchie per ripararsi dal terrificante rumore della natura perversa intorno. A confermarlo è una nuova mostra al British Museum di Londra, che apre domani, dal titolo «Edvard Munch: love and angst» e che sarà aperta fino al prossimo 21 luglio.
Si tratta della più grande retrospettiva sul suolo inglese di Munch degli ultimi 45 anni. È già apprezzata dalla critica per l’assoluta potenza che fa luce nelle tenebre artistiche e personali del pittore, include ben cinquanta prestiti dal Museo Munch di Oslo. Ma l’opera di cui si è discusso di più sinora è una apparentemente banale litografia del 1895, in bianco e nero.Già, perché quest’opera, secondo la curatrice della mostra Giulia Bartrum, dimostrerebbe come in realtà l’Urlo di Munch non sia affatto un urlo. Il disegno più netto e marcato delle versioni dipinte, infatti, fa pensare più a una persona che ascolta minacciose grida nei dintorni, non il contrario. Ma c’è un altro elemento, la prova decisiva secondo Bartrum: in una apposita didascalia della litografia si legge: «Ho sentito il grande urlo attraverso la natura», il che combacia con un passaggio dei diari di Munch datati 22 gennaio 1892, quando a Nizza, in Francia, l’artista ricorda una particolare passeggiata avvenuta pochi giorni prima nei pressi di un fiordo vicino alla capitale Oslo: «Camminavo lunga la strada con due amici, il sole stava tramontando, quando all’improvviso il cielo è diventato rosso sangue. Mi sono fermato, mi sentivo già esausto, mi sono aggrappato a una ringhiera vicina, c’era sangue, lingue di fuoco sopra il fiordo blu scuro e la città. I miei amici non hanno interrotto l’andatura, io invece sono rimasto fermo, tremando di angoscia, e ho percepito un urlo infinito che ha trapassato la natura». Altra prova: lo stesso titolo in tedesco che Munch diede al suo capolavoro del 1893 è Der Schrei der Natur, L’Urlo della Natura.
«Questa rara versione dell’Urlo», spiega Bartrum, «dovrebbe finalmente fugare ogni dubbio sulla natura dell’opera». Insomma, il presunto urlo, secondo la mostra del British Museum, è semplicemente una reazione emotiva di Munch a qualcosa che resta ancora ignoto: forse la rossa eruzione del vulcano Kakatoa (avvenuta dieci anni prima), forse la presenza di un manicomio o di un mattatoio nelle vicinanze, o forse semplicemente uno stato mentale doloroso e allucinato dell’artista innescato da altre forze interiori e personali.
Non è la prima volta che questa teoria viene alla luce, anzi, persino i due ultimi direttori del Munch Museum di Oslo, l’attuale Sten Olav Henrichsen e il suo predecessore Gunnar Soerensen, la pensano differentemente, con il primo che conferma la teoria del British Museum e il secondo che invece ha dichiarato in passato: «Può essere una persona che grida oppure l’urlo della natura. È una questione di interpretazione».Di certo, nell’immaginario collettivo, l’Urlo di Munch è il grido disperato di una figura smunta e sottile, oscillante come un pendolo, asessuale e indefinita, che incarna tutte le fragilità contemporanee, forse ispirata a una mummia peruviana che Munch aveva visto all’Expo di Parigi del 1889. In ogni modo, quattro anni dopo, l’artista allora trentenne, tenebroso e maledetto, urlò al mondo il suo maestoso talento e da quel momento la sua opera è diventata il modello dell’inquietudine odierna, il racconto della follia umana, la disumanizzazione delle nostre fobie. E peccato che Tracey Emin e film di culto come il ridicolo Scream di Wes Craven pensavano fosse un urlo: forse, è solo questione di intepretazione.