Come architetto non si è annoiato, firmando musei, edifici residenziali, scuole, banche, biblioteche, centri congressi, dallo Yokohama Business Park al Padiglione delle Arti Islamiche del museo del Louvre di Parigi.
Si scopre anche il futuro, in quegli occhi, perché Bellini è uno dei progettisti più attivi e al Salone del Mobile, in corso a Milano, le sue creazioni sono numerose. Una tra le più interessanti è proprio un incrocio fra passato e presente, artigianato e tecnologia, testimonianza di un design sempre più seduttivo anche per i grandi protagonisti dell’hi-tech.
«Quando i coreani di LG mi invitato a collaborare, ho pensato di unire il loro Rollable Oled tv, un televisore riavvolgibile a rullo, con il mio tavolo Basilica, nato negli anni Settanta per Cassina e prodotto ancora oggi. Un tavolo formato da doghe di legno massello assemblate insieme. Quindi nobiltà del legno e avanguardia tecnologica nello stesso oggetto. Mentre siete al tavolo premete un telecomando e dal ripiano esce un foglio sottile, come farebbe un serpente dal cesto dell’incantatore, e il living diventa anche ufficio. Invece che su un piccolo cellulare navighiamo sul grande schermo di una smart tv, e poi lo facciamo scomparire di nuovo quando abbiamo finito».
Alta tecnologia, ma anche moda, beauty, auto, nautica.. Al Salone del mobile si affollano tanti mondi diversi dall’arredamento, forse troppi.
Ma perché? Qual è il segreto del successo del design?
«Prima di tutto è il successo della parola, che non appartiene al nostro vocabolario e che noi italiani usiamo con leggerezza, senza preoccuparci di usi impropri, fino a renderla una parola magica, che oggi funziona anche per vendere una casa o un quartiere, un vestito o un’auto; si presta a ogni cosa e finisce per non significare più niente. Se provassimo a sostituirla con "disegno", la più ovvia delle traduzioni possibili, farebbe uno strano effetto: museo del disegno, settimana del disegno… In questi giorni ho sfogliato molti giornali che raccontano il Salone del Mobile e le molte pubblicità di cose che con l’arredamento non c’entrano niente mi hanno fatto pensare a un rapporto tra il parassitario e il simbiotico. Si usa il design come un grande seduttore commerciale».
Anche lei si unisce al coro "il design è morto" e se la cava con il comodo prefisso "post"?
«Che sia morto non lo dico io ma molti altri. Uso l’espressione post-design perché penso che oggi siamo ben oltre l’espressione form follows function, la forma che deriva dalla funzione, comandamento del Movimento Moderno, quando negli Venti e Trenta il design prendeva forma e il Bauhaus diceva basta alla licenziosa dittatura degli stili».
E dove siamo?
«Abbiamo capito che la funzione può seguire la forma, perché certe forme ci danno emozioni e anche l’emozione è una funzione: l’uomo ne ha bisogno per vivere ed essere felice».
Dall’Olivetti in poi lei ha collaborato con aziende tecnologiche, eppure le idee se le fa venire schizzando a mano.
«Vero, avrò fatto migliaia di schizzi. Appena mi trovo davanti a un foglio A4 con una matita, la mia mente si mette in modalità inventiva, penso anche con le mani; però se a un certo punto ho bisogno di verificare un’immagine o una forma, allora la tecnologia torna l’insostituibile alleata che offre velocissime risposte».
Tra i marchi più presenti al Salone ci sono quelli delle auto. Lei è stato consulente della Renault e della Fiat e a Italy, The New Domestic Landscape, la mostra del Moma che nel 1972 fece conoscere il design italiano al mondo, propose una delle auto - oggi si direbbe una concept car - più innovative dell’epoca.
«Che i grandi produttori di auto ignorarono. Si chiamava Kar-a-sutra ed era una monovolume prima delle monovolume, pensata per essere più vivibile, per mettere le persone in relazione fra loro, per consentire anche a quelli dietro di vedere bene fuori; non era un’auto-casa come certe ipotesi che vedo oggi, che immaginano l’auto con il bagnetto e il cucinino. Era un’auto che smontava il noioso assetto di uno che guida, un altro che accanto a lui guarda davanti e tutti si annoiano».
Il cibo è la più recente categoria del design. Non le sembra che anche il food design rischi di essere più una seducente formula che una realtà, che tutto rischi di ridursi all’impiattamento e all’architettura creativa di certi dessert?
«Nel 1981 ho curato per Electa il volume Progetto Mangiare. Ho analizzato le insegne dei ristoranti, le modalità di apparecchiatura, le divise dei camerieri, e studiando come McDonald’s aveva messo a punto l’hamburger ho scoperto che era stato progettato come un grattacielo con una serie di piani. Era food design. Oggi potremmo dire che il design si è mangiato anche il food».
Lei oltre ad avere una straordinaria vitalità creativa, è anche in eccellente forma fisica.
Come fa?
«Penso che sia perché nuoto a lungo ogni mattina. Comunque sono abbastanza "giovane" da poter dire di aver visto tutto l’inizio del design italiano ma mi auguro di non vederne la fine».