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 2019  aprile 09 Martedì calendario

Biografia di Max von Sydow

Max von Sydow (Carl Adolf von S.), nato a Lund (Svezia) il 10 aprile 1929 (90 anni); svedese naturalizzato francese. Attore. «Attore prediletto dell´immenso Bergman, con cui ha girato quattordici film – da Il posto delle fragole a Il volto, a La fontana della vergine – sui centoquarantacinque dell´intera carriera» (Mario Serenellini). «Dopo aver interpretato per Bergman il crociato che arriva da Gerusalemme, i ruoli religiosi mi hanno sommerso: sacerdoti, vescovi, santi, persino il papa, poi il demonio… Una vera noia, per un attore. Naturalmente tutti pensavano che io fossi molto religioso. Invece, sfortunatamente, non lo ero per nulla» • «Sono nato nel sud della Svezia, nella luterana Lund: cinquantamila abitanti, l´università, un solo cinema – il Reflex – e niente teatro. In ogni caso, la mia famiglia non nutriva interessi per teatro e cinema. Non avevo fratelli né sorelle. Mio padre aveva cinquant´anni quando sono nato, mia madre quattordici di meno. A dieci anni, mio padre ne aveva sessanta: un vecchio, da sempre estraneo alla vita sportiva, professore d´Etnologia all´università di Lund, dove insegnava il folclore scandinavo. Mi sono nutrito dei suoi racconti di miti, leggende, favole d´un tempo remoto. […] Mio padre aveva una grande passione per le piante. Abitavamo a due passi dall´orto botanico. Spesso mi ci conduceva, ed era una festa: perché di ogni pianta conosceva il nome, in svedese e in latino, e mi raccontava tutto di ogni fiore. Da bimbo solitario, mi piaceva viaggiare con l´immaginazione: la botanica era il mio fantasy. I miei nonni erano stati contadini: da loro ho imparato il piacere di andar per campi, da ragazzino, a cercare insetti e osservare foglie. È stato quello il mio primo cinema, in mancanza d´una sala dove scoprire Charlie Chaplin o Greta Garbo». «Avevo già quattordici anni quando vidi per la prima volta uno spettacolo. Si trattava di Sogno di una notte di mezza estate, e rimasi così affascinato che, da quella volta, tornai a vederlo ancora. Circa un anno dopo decisi, con dei compagni di classe, di formare un club teatrale. Ecco, in quel momento credo di aver pensato alla possibilità di un futuro come attore. Per quanto riguarda la ragione meno evidente, invece, bisogna considerare la mia timidezza e la grande solitudine in cui vivevo. Credo di aver affrontato il palcoscenico per vincere questi due aspetti della mia vita e per acquisire anche io la brillante sicurezza di chi sa sempre cosa dire». «La guerra, in Svezia, l´abbiamo vissuta da spettatori. Da Estonia e Finlandia giungevano echi di morte, aerei che come improvvisi avvoltoi si liberavano delle bombe sulle nostre foreste. Ero un ragazzo: dopo, gradualmente, ho capito la tragedia. Finita la guerra, sgomberati i campi di concentramento, la Croce rossa ha trasportato da noi centinaia di prigionieri in cura. Nel ´45, a sedici anni, facevo parte d´un gruppo folcloristico. Abbiamo danzato per loro, con repertori differenziati: musiche polacche, russe, italiane. Era la prima volta che quei reduci dall´oltretomba assistevano a spettacoli. Un pubblico straordinario, un´esperienza emozionante: e terribile». «“Nella mia frustrazione di piccolo provinciale, vedevo nella ribalta il lasciapassare per un´altra dimensione del vivere: l´avventura, il sogno di gloria, la promozione al rango sociale di persone brillanti, seducenti, capaci di trovare la parola giusta in ogni situazione. Una favola del presente: gemella delle favole rappresentate in scena”. La reazione dei suoi? “Mia madre s´è allarmata: Max, in quel mondo, ti troverai davanti a tante tentazioni. Ma non mi ha specificato quali”» (Serenellini). «In quegli anni, in Svezia, se volevi diventare un attore, dovevi provare ad entrare in una scuola di recitazione. Io sono stato particolarmente fortunato, visto che riuscii ad essere ammesso all’Accademia di recitazione nazionale. In quegli anni non aspiravo minimamente al cinema, ma il direttore della scuola Alf Sjöberg mi vide in uno spettacolo e mi offrì una parte nel film Bara en mor» (Tiziana Morganti). «È vero che, la prima volta che si è presentato a Bergman, le ha detto di no? “È vero, ma non è andata esattamente così. L´avevamo chiamato da una cabina, io e altri studenti del teatro della scuola. Stava per girare La prigione. Ha bisogno di attori? E lui: no. Poi mi ha visto in teatro, dove interpretavo Saint-Just: e mi ha ingaggiato nella sua compagnia di Malmö”. I ricordi più belli? “Le proiezioni che ci organizzava le sere di ogni lunedì, giorno di riposo degli attori, al Teatro Municipale di Malmö o nel suo appartamento. Classici svedesi, capolavori del muto e, soprattutto, film russi, Eisenstein e tanti contemporanei. Ingmar aveva anche una solida preparazione musicale: e così, molto spesso, la sera si ascoltava Mozart, sulla spiaggia della sua isola, dove accendeva il fuoco per noi”. La partita a scacchi nel Settimo sigillo segna una svolta nella storia del cinema. […] Ne siete mai stati coscienti, lei e Bergman? “Assolutamente no! Quel film minuscolo […] era stato rifiutato a lungo dai produttori perché considerato troppo intellettuale. Ingmar s´era ispirato al dipinto visto in una chiesa cattolica in Svezia: da due anni tentava, inutilmente, di trasformare la sceneggiatura in film. Nel frattempo era uscito Sorrisi di una notte d´estate. È grazie al suo grande successo se i produttori hanno ceduto e se esiste oggi Il settimo sigillo, che per noi era stato un semplice esperimento”» (Serenellini). «Si dedica al palcoscenico durante gli anni ’40 e la prima parte dei ’50. Debutta al cinema nel 1949 in Bara en mor (Solo una madre) di A. Sjöberg, ma è l’incontro con I. Bergman a lanciarlo sul grande schermo. Diretto dal grande maestro svedese, è protagonista di Il settimo sigillo (1956), Il volto (1958), La fontana della vergine (1959). La vergogna (1968), L’ora del lupo (1968) e L’adultera (1971)» (Gianni Canova). «Io ero molto soddisfatto del lavoro fatto in Svezia, ma durante un Festival di Cannes incontrai un agente che iniziò a propormi dei progetti in America. Fu lui a parlarmi del film di George Stevens, La più grande storia mai raccontata. All’inizio rifiutai perché non amavo particolarmente le pellicole bibliche, ma quando il regista mi invitò a Hollywood per parlarne rimasi incredibilmente impressionato dalle loro possibilità tecniche ed accettai. Per quel film rimasi negli Stati Uniti per un anno e poi tornai a casa alla mia solita vita. Da quel momento, però, sono arrivate altre richieste, ed ho cominciato a bilanciare il mio lavoro all’estero con quello in Svezia» (Morganti). «All’inizio ho cercato di trovare un equilibrio tra girare film all’estero e lavorare in Svezia al cinema e in teatro. La cosa ha funzionato bene, poi via via sono diventato sempre più pigro: il teatro porta via tanto tempo». «Il successo dei film di Bergman porta Sydow ad apparire con regolarità in opere statunitensi: interpreta Gesù in La più grande storia mai raccontata (1965) di G. Stevens e padre Merrin in L’esorcista (1973) di W. Friedkin, oltre a recitare in Lettera al Kremlino (1970) di J. Huston e I tre giorni del condor (1975) di S. Pollack. Attore di grande versatilità, che talvolta sceglie film non all’altezza della sua bravura, prosegue la sua intensa carriera recitando in Flash Gordon (1980) di M. Hodges, Hannah e le sue sorelle (1985) di W. Allen, Pelle alla conquista del mondo (1987) di B. August e Fino alla fine del mondo (1991) di W. Wenders. Particolarmente attivo anche in età avanzata, appare in Nonhosonno (2000) di D. Argento e in Minority Report (2002) di S. Spielberg» (Canova). All’insegna della poliedricità anche le sue più recenti interpretazioni, sia cinematografiche, in pellicole spesso d’azione (Solomon Kane, Robin Hood, Rush Hour 3 – Missione Parigi) o di fantascienza (Il marchio di sangue, Star Wars – Il risveglio della forza) ma anche drammatiche (Heidi, Lo scafandro e la farfalla, Molto forte, incredibilmente vicino, Kursk), sia televisive, in serie (approssimativamente) storiche come I Tudors e schiettamente fantastiche come Il trono di spade. «Come attore cerco sempre la varietà: trovo noioso rimanere imprigionato nello stesso ruolo. […] Per un attore è importante essere interessato a cogliere varie opportunità. Senza opportunità non si potrebbe dimostrare nulla del proprio valore» • Un’unica prova da regista: Katinka. Storia romantica di un amore impossibile (1988). «Per qualche ragione lessi un libro di uno scrittore danese e me ne innamorai. Parlai con diversi registi – compreso Bergman – ma nessuno era interessato a farne un film. Poi ho incontrato qualcuno, un ragazzo danese: gli raccontai il mio interesse, e lui mi disse che avrei dovuto dirigerlo io. Lui mi disse che aveva i soldi per farlo e che era un produttore. Così lo feci. Però sono un attore e non un regista. Credo che dirigere richieda un talento speciale e io non ce l’ho, però mi è piaciuto farlo» • «Le dispiace esser rimasto soprattutto un attore svedese? “No. Sono stato assai fortunato: ho fatto il miglior cinema del mio Paese, qualche ruolo buono e qualche altro no a Hollywood, molte cose interessanti in Europa soprattutto in Italia”. E cita Il deserto dei tartari di Zurlini, Cadaveri eccellenti di Rosi, Cuore di cane di Lattuada» (Simonetta Robiony) • «C’è un film che per alcune ragioni significa molto per me, ed è Pelle alla conquista del mondo. Amo la storia e il personaggio. È tratto da una novella danese molto antica, della fine del XIX secolo, uno dei più importanti racconti del tempo, che diede per la prima volta davvero dignità alla classe lavoratrice. Un gran personaggio, disgraziato e miserabile ma bellissimo» • Quattro figli: due nati dal primo matrimonio con l’attrice svedese Christina Olin, altri due nati alla seconda e attuale consorte, la documentarista francese Catherine Brelet, da una precedente relazione e poi adottati da Von Sydow • Nel 2002 ha ottenuto la cittadinanza francese. «Ho vissuto una lunga storia d’amore con la Francia. È lì che ho incontrato la signora che è poi diventata mia moglie, è lì che mi sono innamorato. Lì voglio vivere e lì voglio morire. Solo, è un peccato che non sia mai riuscito a dominare una lingua così insidiosa» • «Imponente nei suoi […] 196 centimetri d´altezza; […] Luminosi occhi azzurri – docile ghiaccio nei film in bianco e nero» (Serenellini). «Severi i lineamenti, anche se sono così familiari. E memorabili. Il viso ha l’eleganza di un’antica incisione. Basta guardarlo per vedere sfilare davanti agli occhi immagini storiche: il cavaliere che sfida a scacchi la Morte nel Settimo sigillo, Gesù e Satana, l’esorcista e l’assassino. […] Ieratico ma sorridente, sobrio ma elegante, gentile e mai accondiscendente, Max von Sydow è un gentiluomo oltre che un protagonista della storia del cinema del secolo scorso» (Alessandra Venezia). «Interprete di formazione teatrale, celebre per il fisico imponente, l’eleganza della recitazione e la profondità della voce» (Canova) • «Quando, dopo anni di teatro e di cinema col suo amico Bergman, decise di lavorare a Hollywood, come la prese il regista del Posto delle fragole? “Non fu molto contento della mia decisione. Mi diceva: ‘Ah… te ne vai nel deserto’. E rideva. Ingmar ha avuto un’influenza enorme su di me, probabilmente perché avevamo ricevuto la stessa educazione, venivamo entrambi dalla borghesia protestante: suo padre era pastore, il mio uno studioso. Ci capivamo al volo”. Il ricordo più vivido del maestro? “Le proiezioni di film del lunedì sera, che organizzava nel suo appartamento. Ricordo quando vedemmo insieme I dieci comandamenti, di Cecil B. DeMille: alla scena in cui Mosè torna dalla montagna col messaggio divino, invecchiato di ottant’anni, Bergman rideva, rideva, non la smetteva più. Lo trovava buffo, ma sono convinto che, allo stesso tempo, sotto sotto, Hollywood lo affascinasse terribilmente”» (Venezia). «Chi è per lei Bergman, oggi? […] “Rimane il più grande complice d´arte e di vita che ho avuto, anche se la sua principale preoccupazione era d´entrare in sintonia con le attrici, più che con gli attori. Aveva dieci anni più di me. L´intesa è stata immediata. Il lavoro con lui, nel cinema come in teatro, è stato stupendo. Aveva una immaginazione fervida e un grande sense of humour: una persona estremamente divertente, a dispetto dell´idea corrente di uomo d´ombre e d´angoscia. Intelligentissimo e intuitivo, capace d´indovinare al primo colpo d´occhio i problemi degli altri: perciò ci incuteva timore. Gli ho sempre invidiato la ferrea disciplina, che spiega come sia riuscito a produrre una tale quantità di opere, nel cinema e in teatro. Scriveva le sceneggiature d´inverno, girava d´estate, montava in autunno, in modo che il film potesse uscire per Natale. Non ho mai capito dove trovasse tanta energia”» (Serenellini). «L’esperienza con Bergman è stata la più importante della mia vita: abbiamo lavorato così a lungo, sia nei film che in teatro! […] Un’esperienza complessa ma gratificante, quella con lui. Sono stato molto fortunato a viverla» • «Personalmente io preferisco il teatro all’esperienza cinematografica. Sul palcoscenico si lavora insieme, si crea una magia e si avverte la sensazione di appartenere tutti allo stesso progetto. Questo ci fa sentire molto più creativi». «Probabilmente ogni interprete è un essere umano in fuga da qualche aspetto della propria esistenza, ma, allo stesso tempo, è anche alla costante ricerca di altro. Ciò che so è che, quando ti trovi davanti ad una telecamera o su di un palcoscenico, devi dimenticarti completamente di te stesso. Non ha importanza se hai appena ricevuto una pessima notizia o se la tua ragazza ti ha lasciato. Tutto questo non conta più. Devi provare a pensare con la mente e il cuore del tuo personaggio. Non dico che sia semplice, ma è incredibilmente eccitante». «Un attore deve cercare di creare il momento perfetto, deve ricercare la sincerità, il contatto, cercare di trasmettere l’immagine del personaggio. È difficile parlarne, è difficile dire cosa sia l’arte della recitazione. Un attore come artista è diverso da un pittore, uno scrittore, perché loro producono e alla fine possono osservare il risultato. Un attore è diverso: lui è lo strumento della propria arte e al contempo è anche il risultato, l’opera d’arte stessa». «“Si nasce e si invecchia, ma si risorge: basta volerlo”, diceva Bergman».