il Giornale, 9 aprile 2019
Intervista a Beatrice Venezi, maestro d’orchestra
Beatrice Venezi è in partenza per l’Argentina. «Venerdì debutto in Sud America, al Teatro del Libertador San Martin di Cordoba. Come sempre all’estero, la prima parte del concerto sarà dedicata all’Italia: il Trittico botticelliano di Respighi e il Notturno di Martucci». Nata a Lucca nel 1990, a trent’anni non ancora compiuti Beatrice Venezi è una delle poche donne maestro d’orchestra. La sua base è la Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli, ma ha girato il mondo dirigendo in Giappone, Bielorussia, Georgia, Armenia e Libano, e Forbes l’ha nominata fra i cento «under 30» più influenti d’Italia. Pucciniana per passione (e origine), è giovane, bella, attivissima sui social. Si racconta in un saggio-autobiografia, Allegro con fuoco. Innamorarsi della musica classica (Utet, pagg. 174, euro 16; in libreria da oggi).
Maestro Venezi, come ha iniziato?
«Quasi per caso. Ho studiato pianoforte; poi sono passata alla composizione con Gaetano Giani Luporini e, infine, alla direzione d’orchestra, anche grazie al lavoro di maestro collaboratore».
La prima volta con la bacchetta?
«Era la mia prima produzione, in estate, vicino a Stoccarda. Il direttore un giorno mi disse: So della tua passione, domani la prova in orchestra la fai tu. Mi lanciai».
Funzionò.
«Andò bene. Fortunatamente... Tornata in Italia ho iniziato a prendere lezioni e ho incontrato il mio primo maestro, Piero Bellugi».
Una donna maestro è una rarità. Con le colleghe come va?
«Siamo poche e, fra queste poche, non c’è grande scambio».
A Osaka una impiegata dell’Istituto italiano di cultura le disse di non averla riconosciuta, perché aspettava «il maestro Venezi». Quando la vedono si sorprendono?
«È successo davvero. Indubbiamente c’è una sorpresa, a volte anche da parte dell’orchestra. Per esempio quando ho diretto in Armenia, in Georgia o a Sofia. Però questa sorpresa dura pochissimo, così come un eventuale pregiudizio: chi fa musica passa subito sul piano del merito».
Altri non lo fanno?
«La difficoltà è farsi giudicare per quello che si vale dal sistema intorno, dalla macchina organizzativa della programmazione».
Però è contraria alle quote rosa.
«Le trovo ulteriormente ghettizzanti. E poi credo non sia necessario sottolineare il genere di un professionista: o sa fare il suo lavoro, o no».
È vero che la criticano per i vestiti troppo femminili?
«Una volta una collega, su un post, ha scritto che lei, da donna, indossa sempre il frac, perché non vuole che la musica sia distratta dagli abiti».
È così?
«A me sembra offensivo nei confronti della musica. È pretestuoso... Forse un retaggio culturale, o generazionale, di un certo tipo di femminismo che ha fatto più male che bene. E che è finito con il diventare ancora più maschilista, limitante e tranchant nei giudizi».
Come mai è così attiva su Instagram?
«Ho 29 anni, giocoforza devo relazionarmi con i miei coetanei. E poi si dice che è una vetrina vuota, così ho voluto riempirla di un contenuto: racconto la trama delle opere e il dietro le quinte del mio mondo, l’orchestra e il teatro».
La musica classica può essere pop, a partire dal suo amato Puccini?
«Lui è il più moderno dei moderni, perfino troppo pop per una certa intellighenzia culturale, che lo ha escluso dalla Scala per molti anni. È moderno nel linguaggio e nelle trame. Ma non è il solo: nel libro racconto cinque trame molto attuali».
In che senso?
«Queste storie ci parlano, hanno gli stessi pattern narrativi dei film e dei telefilm e richiamano storie drammaticamente note. Carmen è il primo e unico femminicidio portato in scena».
Le altre?
«La Bohème di Puccini: il precariato, anche sentimentale. La mia generazione. E Madama Butterfly, primo esempio di turismo sessuale sul palco. Poi due opere che esortano a strutturare un proprio pensiero critico, contro gli ideali preconfezionati e le fake news: Il trovatore e l’Andrea Chénier».
Perché è stata nominata da Forbes?
«Un grande onore... Credo, per prima cosa, perché cerco di veicolare un contenuto che è nel nostro Dna, e rappresenta le nostre radici, con una modalità nuova; un tipo di divulgazione più pop, per tornare a riempire i teatri, e far sì che le nuove generazioni si riapproprino di questo patrimonio».
E poi?
«Perché sono una donna, immagino. La rivoluzione non è tanto nel ricoprire un ruolo maschile; è nel farlo senza dimenticare la mia femminilità, senza mostrare i muscoli. Altrimenti non ci sarebbe progresso».
È vero che si allena?
«Certo. È anche una performance. Devi stare molto in piedi, tutti i muscoli sono coinvolti nello sforzo. Faccio yoga e studio tanto le partiture».
Un sogno?
«Beh, la Scala. Poi tutti grandi teatri italiani. E completare le opere di Puccini che non ho ancora diretto».
Perché finora ha lavorato di più all’estero?
«Non dico che sia più semplice ma, forse, in Italia c’è un po’ più di resistenza. Ma amo molto il mio Paese e poterlo rappresentare nei teatri all’estero è un grande onore. In Italia no ma, all’estero, essere italiani è un plus».