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 2019  aprile 09 Martedì calendario

Le battaglie di Lupita. Intervista

È il periodo d’oro di Lupita Nyong’o. Dopo l’Oscar per 12 anni schiavo nel 2014 la carriera dell’attrice keniota-messicana è in continua ascesa. I giovani la conoscono soprattutto per Black Panther, è sugli schermi con il thriller-horror Noi, è stata tra i protagonisti di Star Wars. «Non so però che cosa significhi che “questo è il mio momento”. Recito da anni, l’ho fatto anche a Broadway e valuto con attenzione le occasioni che mi offrono. La recitazione fa parte della mia vita. Ho studiato, vissuto, lottato, sempre fiera del colore della mia pelle, dei miei capelli crespi, delle mie origini». 
Non è soddisfatta degli elogi? 
«Mi dico sempre: sei quello che vuoi essere, non l’immagine che gli altri ti assegnano. Ringrazio. Però il mio obiettivo non è conquistare i tappeti rossi o far parte dei ranghi dello star system, ma riuscire a dare più potere alle donne e a cambiare gli stereotipi femminili. E voglio lavorare anche come produttrice». 
La «Plan B» di Brad Pitt la affiancherà nella produzione di «Born a Crime» sull’apartheid in Sudafrica, dal libro di Trevor Noah... 
«Dopo la prima pagina non ho potuto più lasciare questo libro, l’ho letto d’un fiato e poi ho voluto conoscere Trevor, che è sfuggito a un destino difficile diventando un comico di grande intelligenza». 
Non le basta la carriera d’attrice? 
«No, produrre film è l’unico modo per controllare la propria carriera a Hollywood. Presto porterò sullo schermo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie sulle vicissitudini di due immigrati nigeriani». 
Per molte giovani attrici vincere un Oscar non ha sempre significato una carriera luminosa. Lei come ha sfruttato la statuetta? 
Differenze 
Essere cresciuta in Kenya e in Messico mi fa vedere il mondo senza differenze 
Ma anche a Yale è dura 
«Chiedendo rispetto per i miei progetti, che affrontano temi importanti. In Americanah, a uno dei giovani protagonisti, Obinze, viene negato il visto Usa. La ragazza, Ifemelu, scopre negli Usa che cosa significa avere la pelle nera. Ho pianto leggendo questo libro, pensando alle sofferenze di tanti immigrati nel mondo». 
Lei è cresciuta in una famiglia benestante e colta, suo padre era docente universitario e uomo politico… 
«È vero, ma posso dire che tutto è stato duro, anche sui banchi di Yale nei corsi di Letteratura e Arte Drammatica. Essere cresciuta in Kenia e in Messico mi ha aiutato a combattere sempre ogni discriminazione. Lo feci con il cuore e con tutto il mio corpo anche interpretando Patsey, brutalizzata dalle violenze, in 12 anni schiavo». 
I suoi genitori l’hanno appoggiata nelle sue scelte? 
«Sono nata in una famiglia illuminata. Parlo cinque lingue, mi sento parte di un mondo che si batte per gli altri. Mio padre ha sempre inteso la politica, anche nei periodi in cui è stato senatore in Kenya, come una lotta per aiutare la sua gente. Mia madre Dorothy per me è sempre stata un esempio, è una donna impegnata per l’Africa Cancer Foundation. Queste sono le cose per cui battersi nella vita. Se io posso impiegare bene i soldi che ho (grazie anche alla pubblicità e alla moda) lo faccio, non certo per vanità». 
Con quali registi le piacerebbe lavorare? 
«Con tutti quelli che sanno tradurre la scrittura in immagini, senza mercificare i temi. Mi piace scrivere, più di alcuni film sono così fiera del mio primo libro per i giovani che può dare qualcosa anche agli adulti. L’ho presentato prima su Instagram, si intitola Sulwe. Sulla copertina ha una bimba nera perché lo scopo del mio libro è insegnare a tutti che bisogna amare i colori della propria pelle attraverso le avventure, i dolori e le gioie della vita. La pelle ha un colore, l’anima no».