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 2019  aprile 09 Martedì calendario

Anche l’arte è diventata populista

Un tempo chi disegnava pubblicità, confezioni per oggetti, manifesti di mostre o giocattoli rientrava in una categoria che in lingua anglosassone si chiamava Commercial Art, arte commerciale. Di questa categoria facevano parte giganti creativi tipo Milton Glaser, colui che ha inventato il famoso cuore per lo slogan I Love New York, poi preso in prestito dall’umanità intera. Questi professionisti della comunicazione visiva erano felici e soddisfatti del loro ruolo e del riconoscimento che avevano e quasi mai, molto intelligentemente, facevano l’errore di varcare il confine entrando in quell’altro mondo, più elitario e sofisticato dell’arte con la A maiuscola. Oggi, forse perché tutta l’arte è diventata commercio e l’arte per l’arte non esiste più, se è mai poi esistita davvero, figure ben più inferiori al genio di Glaser decidono – o altri decidono per loro – che possono far parte dell’Arte “vera” e pure del suo mercato.
Anche il mondo dell’arte sta abbracciando l’onda del populismo che sta mettendo in crisi la società, la politica e i rapporti umani. Gli assiomi usati dai demagoghi del populismo politico – “diamo alla gente ciò che vuole o pensa di volere” o “se piace alla gente vuol dire che funziona” – adesso valgono anche per la cultura e l’arte.
Esempi eclatanti di questo fenomeno sono i casi di Banksy e di KAWS. Il primo, che vanta di celarsi in un affascinante anonimato tipo quello di Zorro o di Batman, è stato il soggetto di una mostra non autorizzata, da lui o lei che sia, a Milano che sta facendo faville in termini di spettatori (al Mudec, fino al 14 aprile).
Paradossalmente chi sta dietro a questo street artist ha fatto causa agli organizzatori della mostra per aver messo in piedi una mostra senza il suo consenso. Come se Salvini facesse causa agli scafisti perché non pagano le tasse portuali o se un gruppo terroristico facesse causa alla polizia per essere entrata illegalmente nel suo covo. Come per dire anonimo sì, ma fino a un certo punto. L’altro fenomeno più onesto e sincero di Banksy, ma non meno mediocre da un punto di vista artistico, è KAWS. Al secolo Brian Donnelly nato in New Jersey, un ex street artist non più di primo pelo, avendo quarantacinque anni, che però piace a grandi e piccini. Dopo aver iniziato facendo bambolottini ispirati a manga giapponesi e a Topolino, da qualche anno si è trasformato in un fenomeno del mercato dell’arte. I suoi gadget sono diventati “capolavori” che valgono centinaia di migliaia di dollari o addirittura milioni. Una sua tela di poco più di un metro per un metro che ri-rifaceva alla KAWS il rifacimento alla Simpson della famosa copertina del disco dei Beatles Sgt. Pepper’s è stata appena venduta da Sotheby’s ad Hong Kong per più di quattordici milioni di dollari. Una cifra che obbliga il fortino dell’arte ad alzare bandiera bianca. Per KAWS vanno matti investitori economici o imprenditori dell’economia digitale sotto la trentina. Nel caso di KAWS non è questione d’investire ma di spendere. Anche se dal 2011 ad oggi i prezzi di KAWS sono cresciuti 150 volte, è molto probabile che nei prossimi otto anni crollino di 151 volte.C’è chi lo paragona a Warhol, ma è una sciocchezza. Warhol per campare faceva vetrine, ma poi, una volta entrato nel mondo dell’arte, ha inventato un linguaggio del tutto nuovo e ha guardato alla società che si trasformava dal punto di vista dell’arte. Il percorso è esattamente contrario a quello di KAWS. L’arte di Warhol è diventata gadget mentre i gadget di KAWS vengono confusi per arte. Ad Hong Kong è stato piazzato un enorme bambolotto di KAWS che galleggia sull’acqua e per il quale la gente stava in fila ore per farsi un selfie. Non solo: poco lontano dalla bambola cadavere, è stata inaugurata una mostra a mio parere oscena, sempre di KAWS. Definire KAWS “osceno” è comunque inutile. Come sarebbe inutile tentare di convincere un cinque stelle che il reddito di cittadinanza è una sciocchezza, Salvini che i migranti sono persone e non appunto bambole gonfiabili che possono galleggiare sul Mediterraneo, o tentare di far capire a Trump che il muro al confine del Messico è un’idiozia. Il successo del fenomeno è innegabile.
Tuttavia la cosa interessante e sorprendente della mostra di KAWS a Hong Kong è il fatto che sia stata curata da Germano Celant, non da un qualsiasi mercante a caccia di denaro. Celant è colui che nel 1967 inventò il movimento artistico dell’Arte Povera, uno dei più importanti della storia dell’arte del dopoguerra. Ma è anche uno storico dell’arte che ha compilato i cataloghi ragionati di Piero Manzoni, quello della Merda d’artista, e curato incredibili mostre tra le quali alcune di Lucio Fontana, quello del taglio sulla tela. Un professionista che ha contribuito all’arte e alla cultura con progetti diametralmente opposti al fenomeno KAWS. Il fatto che abbia accettato la sfida di curare una mostra del genere potrebbe significare la presa di coscienza che popolarità e commercio stanno lentamente sostituendosi ai vecchi concetti di qualità, impegno e contenuti.Quindi pure chi aveva difeso un tempo questi criteri a spada tratta è costretto a prendere atto che la guerra adesso va combattuta con altri strumenti.
Come quando si è passati dalle frecce e l’arco ai fucili, o in politica dagli spot televisivi a Twitter e Facebook. Non solo. Va preso atto che roba come KAWS è in grado di conquistare ed occupare spazi urbani o vetrine di negozi in modo molto più brutale ed efficace di quanto avrebbe potuto farlo un igloo di Mario Merz o una fiamma ossidrica di Kounellis, a loro agio in gallerie e musei o in ogni caso in spazi deputati per addetti ai lavori. Ma impreparati al caos visivo delle metropoli del XXI secolo.
Gli tsunami KAWS e Banksy, e chissà quanti altri in arrivo, spingono ad una riflessione e obbligano il mondo dell’arte a porsi domande serie. L’arte è sempre stata un ponte fra l’immaginazione e la realtà, fra lo spirito e il mondo. Oggi il ponte sembra essere crollato.
Nel canyon dell’incomprensibile è sprofondata gran parte dell’arte del dopoguerra, fatta più d’idee che di muscoli, più di trovate che di scoperte. Così, paradossalmente, dimenticando di scoprire, l’arte è rimasta scoperta agli attacchi di coloro che non inventano nulla, ma fanno vedere molto.
Inebetiti a guardare nel vuoto del canyon, rimangono allora i superstiti di quell’arte contemporanea che, come la città di Troia, brucia avendo lasciato entrare ingenuamente fra le proprie mura un enorme bamboccione di plastica, senza sospettare che dentro la pancia nascondeva tanti cattivissimi e pericolosissimi KAWS.