la Repubblica, 9 aprile 2019
Gli stregoni immobiliari
Il difetto dei numeri è che non consentono di manipolare la realtà dei fatti come normalmente certi politici fanno con le dichiarazioni. Se scrivo nel bilancio dello Stato che entro dicembre 2019 devo vendere 950 milioni di immobili pubblici, mentre siamo già al 9 aprile e ancora non ho messo in vendita un solo metro quadrato, significa che d’ora in poi dovrò incassare una media di 3,6 milioni al giorno.
Il che, per un Paese dove le cessioni dei beni statali fruttano al massimo una ventina di milioni l’anno e il mercato non attraversa certo una fase di euforia, sarebbe un miracolo. A meno che non si faccia come al solito: vendendo a una società pubblica tipo Cassa depositi e prestiti. Ma sarebbe una presa in giro. Per non parlare del piano di privatizzazioni da 18 miliardi con cui a novembre il ministro dell’Economia ha placato Bruxelles. E qui altro che miracolo, se si pensa che, invece di vendere, il governo pensa a far comprare l’Alitalia dalle Ferrovie e le imprese private di costruzioni in crisi dalla Cassa depositi e prestiti. Tanti auguri a Giovanni Tria. In tale contesto si apprende dal sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, incaricato di curare il dossier della flat tax, che le risorse si possono reperire «mettendo in campo per la prima volta una straordinaria valorizzazione del nostro patrimonio immobiliare che vale 400 miliardi di euro…». Per la «prima volta» una straordinaria «valorizzazione» ? La prima volta che quel termine è comparso pubblicamente accostato agli immobili pubblici correva l’anno 1990. La fecero i senatori comunisti per contestare il piano di dismissioni immobiliari del governo Andreotti: «Facciamo piuttosto un programma organico di valorizzazioni». Parole che prefigurarono un trentennio di fallimenti, per un terzo almeno attribuibili ai governi nei quali il partito oggi di Siri occupava posti di comando. «Valorizzazione» diventò all’improvviso un mantra di Palazzo. Volevano valorizzare gli enti locali, lo Stato, perfino le Ferrovie, che fecero una società apposita: Metropolis. Nel pieno crepuscolo della prima Repubblica, l’ultima invenzione andreottiana si chiamò Immobiliare Italia. Ci vollero sei anni per certificare il disastro completo. Sei anni durante i quali il demanio aveva incassato l’equivalente di 21,5 milioni di euro e gli stipendi di Immobiliare Italia continuavano inutilmente e sontuosamente a correre. Non rassegnato, il governo ( allora di centrosinistra) annunciò il varo di fondi immobiliari e progettò di vendere ex carceri e caserme per 2.500 miliardi di lire. Finì con una disarmante intervista del ministro Vincenzo Visco, che denunciò come gli alti gradi militari boicottassero regolarmente anche la cessione di una casamatta diroccata. Arrivarono poi Silvio Berlusconi e il super ministro dell’Economia Giulio Tremonti, con la Lega. Il loro piatto forte, la vendita delle case degli enti previdenziali agli inquilini: con sconti mostruosi e incassi non esaltanti, in rapporto al volume delle cessioni, e non senza qualche bacchettata della Corte dei conti.
E poi il Fip, Fondo immobili pubblici: uffici statali venduti alle banche e riaffittati a caro prezzo. Quindi un super piano per la valorizzazione del patrimonio pubblico. Ovviamente con una nuova società: Patrimonio Spa. Che fece un flop clamoroso. Da allora è stato soltanto un rincorrere in modo ancor più disordinato quella parola: «valorizzazione». Protocolli d’intesa, piani per il federalismo demaniale, immobili pubblici passati a Fintecna per improbabili operazioni con i privati, nuove società pubbliche come Invimit o Cdp Immobiliare che spuntavano dal nulla… Tutte ricette inconcludenti. Mentre pur avendo proprietà per centinaia di miliardi, lo Stato continuava ad arricchire i privati con gli affitti passivi. Ma il fatto ancor più desolante è che ogni qualvolta bisogna tappare un buco di bilancio c’è un apprendista stregone che tira fuori la vecchia favoletta della «valorizzazione». Senza avere però il coraggio di dire che da quando è stata pronunciata la parola, nel 1990, il debito pubblico è aumentato di 1.650 miliardi e il rapporto sul Pil è salito di 40 punti, dal 91,9 al 132,1 per cento.