Il Messaggero, 9 aprile 2019
Libia, la prudenza italiana potrebbe pagare
ROMA Una fitta rete di scambi diplomatici, in chiaro e sottotraccia. L’Italia sta sviluppando in queste ore contatti riservati da un lato soprattutto in una triangolazione complessa con i contendenti principali, Fayez al-Serraj e Khalifa Haftar, forte anche dell’ambasciata aperta a Tripoli e di forme di interlocuzione coltivate nei mesi scorsi a Bengasi. Dall’altro, si rivolge in particolare a Francia e Stati Uniti. La sostanziale diffidenza verso Parigi nasce dall’appoggio offerto al Generale Haftar a dispetto dell’ufficialità e legittimità internazionale della premiership di Serraj a Tripoli. Tuttavia, la diplomazia francese appare spiazzata dal colpo di mano del Generale e ieri anche Macron è intervenuto telefonando a Haftar e reclamando la fine immediata delle ostilità. Almeno pubblicamente.
GLI AMERICANIQuanto agli americani, l’oscillazione della politica africana di Trump nasce dalla convinzione che il Nord Africa, la Libia e perfino l’Europa siano assai meno strategici per gli Stati Uniti del dossier cinese e asiatico. Il premier Conte si limita a contestare «la svolta in direzione di un conflitto militare, armato», che avrebbe il significato di «una guerra civile ed esporrebbe la popolazione a gravi danni, perché non è tanto il problema degli interessi di italiani e francesi, è che non ce lo possiamo permettere». Ma chi ha di più da perdere, oggi, tra francesi e italiani? La proverbiale prudenza italica alla fine potrebbe giovarci, mentre quella di sostegno politico-militare a Haftar da parte di Francia, Arabia Saudita e Emirati rischia di trasformarsi in un boomerang.
LA SCOMMESSASe infatti l’Italia ha scommesso sul cavallo debole, al-Serraj (che ieri ha avuto una lunga telefonata con Conte, il quale gli ha ribadito la necessità di desistere dall’opzione militare e tornare al dialogo), un premier che a malapena controlla la capitale e a fatica si mantiene in sella, la Francia ha commesso l’errore opposto, di affidarsi a una figura debordante, un leader e capo militare che vorrebbe dilagare oltre i confini storici della sua regione di provenienza, la Cirenaica, e conquistare tutto il Paese da Bengasi al Fezzan alla Tripolitania. Mettendosi però contro gli organismi multilaterali che stanno lavorando per un percorso condiviso e l’obiettivo di svolgere, otto anni dopo la defenestrazione e il linciaggio di Gheddafi, libere elezioni come tappa cruciale della cosiddetta transizione democratica. L’Italia ci crede ancora, e punta a preservare una qualche stabilità e sicurezza, eppure dietro l’angolo c’è ormai la prospettiva di un precipitare della situazione in una nuova guerra, civile o latente. Haftar puntava al blitz, a insediarsi a Tripoli con la condiscendenza di milizie e tribù affini ai suoi reparti migliori (salafiti della corrente Madkhala di derivazione saudita) o prezzolati dall’alleanza pro-Bengasi. Se l’azzardo non gli riuscirà, non avrà più carte da giocare al tavolo della politica. E né la Francia né Abu Dhabi o Riyadh potranno apertamente schierarsi con lui.
LA RETEL’Italia può contare sull’ambasciata, su una rete efficace di Intelligence, su centinaia di uomini della missione Ipprocrate e nel porto di Tripoli, e per quanto abbia detto e ribadito che in nessun caso interverrà militarmente (parole che suonano arrendevoli alle orecchie dei nostri amici in Libia), potrebbe alla fine ritrovarsi dalla parte fortunata del panno verde. Il punto è che dovrebbe fare di più, magari con dichiarazioni più muscolari che rassicurino le milizie a difesa della capitale. I libici leggono tutti i segnali e pretendono dai loro sponsor forme di protezione più coraggiose. Pena il ritorno al caos e alla violenza. E, naturalmente, la ripresa delle traversate della morte dalla Libia verso le nostre coste.