La Stampa, 8 aprile 2019
Intervista a Michel Ocelot
Per prima cosa un amabile rimprovero, ma è quello che basta per entrare, in un attimo, nel fantastico mondo di Michel Ocelot, parigino, classe 1943, autore d’animazione raffinata e intelligente, creata per i bambini, con l’obiettivo di educare i grandi: «Preferisce fare l’intervista in inglese? Guardi che è la lingua di Trump – sorride -. Noi francesi e voi italiani continuiamo ad usarla con tutti, anche con gente di altri Paesi, è una cosa grottesca, che mi esaspera. Io ho studiato italiano e spagnolo, ma ho intenzione di fare un corso intensivo della vostra lingua, la prossima volta che ci vediamo parleremo in italiano». Insomma, con Ocelot si vola alti, in uno spazio dove le culture diverse si incontrano e si potenziano reciprocamente, proprio come è sempre successo nei suoi film, da Kirikù e la strega Karabà a Azur e Asmar: «Nella civiltà occidentale mi muovo come un pesce dentro l’acqua, mi sento molto europeo, ma ho anche sempre amato la cultura orientale, i disegni cinesi e giapponesi, le miniature iraniane».
L’ultimo film Dililì a Parigi (nei cinema dal 24 con Movies Inspired) è un viaggio affascinante nella Parigi della Belle Epoque, ma anche una riflessione profonda sul tema delle violenza sulle donne e sulle bambine: «Un incubo, un dramma che risale a molto tempo fa, ben prima del caso Weinstein. Oggi, grazie al MeToo, se ne parla apertamente, ma è un fatto che il numero delle vittime di femminicidio continui a salire, anche in un Paese civile come la Francia».
Tenere insieme, nell’arco di un racconto d’animazione, due argomenti così imponenti era un’impresa che solo Ocelot poteva affrontare. La sua Dililì, bambina mulatta, appartenente all’etnia canaca della Nuova Caledonia, indaga, aiutata dal giovane fattorino Orel, sui misteriosi rapimenti di alcune sue coetanee, legati agli oscuri traffici della setta dei «Maschi Maestri», abituati a vivere in antri sotterranei. A tutto questo buio, fatto di violenza e arretratezza, si oppongono il luccichio della Ville Lumiere, descritta in una fase di massimo splendore, e il genio di artisti e intellettuali che, in modi differenti, guidano la piccola protagonista verso la soluzione del caso: «Il modernismo inizia con la Belle Epoque, con l’esplosione della letteratura, della pittura, della scultura, e con l’affermarsi di personalità femminili, finalmente accettate in ruoli di comando. Era un momento speciale, segnato da una straordinaria concentrazione di talenti, ho scelto di ambientare la vicenda allora per ricordare che quei personaggi sono esistiti e che bisogna continuare ad andare in quella direzione». I numi tutelari di Dililì sono Sarah Bernhardt, Louise Michel, Madame Curie, i paesaggi in cui si muove sono quelli che Ocelot ha perfettamente ricreato visitando e fotografando l’Opera, i Musei d’Orsay, Rodin, Carnavalet, le fogne labirintiche della città: «Niente è inventato, c’è tutto quello che anche oggi è possibile vedere a Parigi».
Davanti a una tale ricchezza di ispirazione, paragoni e influenze esterne diventano trascurabili: «Mi sento libero. Nei confronti dell’America e dell’animazione americana non ho né odio né adorazione, sono stato studente a Los Angeles per un anno e poi sono venuto via, non ho sentito il bisogno di imitare nessuno. E lo stesso vale per il Giappone, ho studiato la loro cultura prima di andarci, poi ci sono stato, ho scoperto i manga prima che diventassero fenomeno alla moda, Hokusai è uno dei miei padri artistici, seguo anche altri tipi di animazione che non hanno niente in comune con quella Usa. Il mio film Disney preferito è “La bella addormentata nel bosco”. E poi ci sono io, il mio amore per la cultura francese, per Voltaire, per la bellezza greca, per il Rinascimento italiano». La tendenza dei colossi Usa di realizzare cartoni sempre più rivolti al mondo degli adulti, pieni di citazioni e riferimenti cinematografici, non convince troppo Ocelot: «Non amo certe strizzatine d’occhio, se voglio dire una cosa al pubblico, lo faccio con chiarezza. Non mi piacciono certi piccoli trucchi superficiali». La verità di fondo è soprattutto una: «Disegnare, per me, è naturale come respirare, non potrei vivere in altro modo. Se mi chiede come resisto in questo periodo storico così brutto, posso dirle che lo faccio continuando a disegnare le mie storie, come ho sempre fatto. Non sarei capace di reagire in altro modo».