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 2019  aprile 08 Lunedì calendario

Biografia di Jean-Paul Belmondo

Jean-Paul Belmondo, nato a Neuilly-Sur-Seine (Francia) il 9 aprile 1933 (86 anni). Attore. Tra i riconoscimenti ricevuti, una Palma d’oro alla carriera al Festival di Cannes (2011) e un Leone d’oro alla carriera alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2016). «Non sono mai stato portato per la tragedia: anche quando giravo i film, le scene più difficili erano quelle in cui mi si chiedeva di piangere. Ci sono stati i drammi e la scomparsa di persone care, ma la vita mi è sempre sembrata leggera, piena di luce» • Ascendenze italiane per parte paterna: piemontese il nonno, siciliana la nonna. «Origini italiane rivendicate e difese […] anche a scuola, quando i compagni francesi lo prendevano in giro chiamandolo “rital” (allusione alla “r” sonora degli italiani), “spaghetti” o “macaroni”, e lui rispondeva a ceffoni» (Stefano Montefiori) • «L’infanzia è stata unica. Grazie al padre scultore, Paul (“che mi ha sempre lasciato libero di provare a essere felice”), e alla madre pittrice Madeleine, “una specie di cavaliere senza macchia e senza paura. Una splendida amazzone: così mi appariva quando avevo 7 anni e lei in tempo di guerra cadeva e si rialzava di continuo in bicicletta per andare a cercare qualcosa da mangiare”. […] “Mia mamma mi ha insegnato che bisogna credere nelle proprie passioni e desideri, infischiarsene di quelli che vogliono tirarti giù, e bisogna avere coraggio. Lei ne aveva molto, perché viveva da sola con due ragazzini, me e mio fratello, in una grande casa sperduta in mezzo alla foresta, e ogni giorno andava a cercare il cibo per noi e per la famiglia di ebrei che nascondevamo in cantina”» (Montefiori). «A scuola JP è una teppa. E una frana. Per dirozzarlo, papà Paul lo trascina ogni domenica al Louvre. Il ragazzino gradisce, ma ha la testa altrove. Pensa al ciclismo, al calcio – gioca da portiere –, in seguito alla boxe. Sarà un welter senza infamia: “Sono salito sul ring nove volte: ho vinto quattro incontri, ne ho persi quattro e pareggiato uno. Non ero male, ma mi ruppero il naso, e allora preferii dedicarmi al cinema”, avrebbe raccontato, mentendo. Il famoso naso non glielo spiaccicarono pugilando, ma in una rissa tra bande di liceali al Bois de Boulogne. All’Accademia d’arte drammatica – dove, fallito l’esame di ammissione, è entrato di straforo – Belmondo non si fa valere più che a scuola. Scalpita, freme, non chiude mai il becco, si aggrappa al sipario usandolo come Tarzan la liana. Non vuol saperne, di darsi una calmata. A 17 anni è andato via di casa, ma per modo di dire. Vive in un appartamentino affittato coi soldi di papà in rue des Lombards, stradina vicino a Les Halles che si va imbottendo di locali jazz. Suoi compagni d’arte e di bicchierate sono Annie Girardot, Jean-Pierre Marielle, Jean-Claude Brialy, Jean Rochefort, Bruno Cremer… Tutti si faranno un nome, ma nessuno provocherà terremoti in scala Bébel. Malgrado le pessime valutazioni, JP s’incaponisce col teatro. Recita Molière, Goldoni, Shakespeare, ma in ruoli pressoché subliminali. E al momento dell’esame conclusivo liquida gli insegnanti col gesto dell’ombrello e uno sprezzante: “Non sono passato per l’Accademia: ci sono passato davanti”. […] Ad ogni modo, non esiste solo il teatro. Grazie a Dio c’è pure il cinema. Il primo regista di rilievo che lo tira dentro a un film è Marc Allégret. Sul set di Sois belle et tais-toi (Fatti bella e taci) JP incrocia un debuttante di nome Alain Delon. Tempo una decina d’anni – tra sodalizi, scorni autentici e rivalità fabbricate dal marketing –, diventeranno i dioscuri del cinema francese. Ma è ancora il ’58. Lo stesso anno dell’incontro con Godard, suo vero pigmalione» (Marco Cicala). «Si era avvicinato mentre mi trovavo nella terrazza di un caffè. Aveva gli occhiali neri, un accento strano… non sapevo fosse svizzero. Mi invita a girare una scena a casa sua in una camera. Credevo fosse omosessuale, ma mi ha convinto ad andare con lui». «Le riprese durarono una giornata e si svolsero […] in una stanza d’albergo a rue de Rennes. Il cortometraggio di dodici minuti – un esilarante pistolotto comminato da uno sbruffone alla ragazza che sta per scaricarlo – fu intitolato Charlotte et son jules (in argot jules sta per ganzo). […] Leggenda pretende che la prima scintilla della Nouvelle vague si sia accesa così. Due anni dopo, 1960, il tandem Jean-Luc/Jean-Paul farà il botto con À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro)» (Cicala). «Nella storia del cinema esiste un prima e un dopo Fino all’ultimo respiro. […] Godard telefona a Belmondo, gli propone la parte del protagonista maschile accanto a Jean Seberg, “e per convincermi mi racconta la trama più o meno così: ‘Un tizio a Marsiglia ruba una macchina per andare a trovare la ragazza. Uccide un poliziotto. Alla fine, muore, oppure uccide la ragazza, vediamo’”. Quella era la versione neanche troppo ridotta della sceneggiatura scritta su un foglio da François Truffaut. Contro il parere della sua agente, Belmondo accetta la parte. “Mi piaceva quest’idea di totale libertà, l’improvvisazione, il fatto che non ci fosse una vera sceneggiatura con le battute precise da imparare a memoria e che io potessi lasciarmi andare all’istinto, come veniva. Il giorno prima delle riprese ho chiesto a Godard se almeno avesse un’idea di quello che voleva fare. Mi ha dato una risposta che mi ha riempito di entusiasmo: ‘No’”» (Montefiori). Godard «“durante le riprese di Fino all’ultimo respiro si fermava quando voleva e ciò mandava fuori di senno Beauregard, il produttore. Ma faceva il contrario di tutto ciò che avevo visto al cinema. Entravo in una cabina e gli chiedevo: ‘Cosa dico?’. E lui mi rispondeva: ‘Quello che vuoi’. Stessa cosa in un bar. ‘Quello che vuoi’. E nella lunga scena della camera ho capito che era incredibilmente inventivo”, racconta. Il maestro della Nouvelle vague lo richiamò l’anno dopo per La donna è donna, poi nel 1965 per Il bandito delle 11» (Mauro Zanon). «Il ginevrino è un tipetto difficile, però intuisce da subito che il potenziale innovativo di Bébel si annida nell’inedita miscela tra una fisicità straripante e una tendenza vuoi all’astrazione lirica, vuoi alla surrealtà bislacca. Perciò in Pierrot le fou (1965, arrivato in Italia con il titolo Il bandito delle 11) lo piazza nudo – ma con l’immancabile Gauloises ballonzolante sui labbroni – in una vasca da bagno. E gli fa leggere quello splendido passaggio di Élie Faure su Velázquez: “Oltrepassati i cinquant’anni, Velázquez non dipingeva più cose definite. Errava intorno agli oggetti come l’aria e il crepuscolo… Velázquez è il pittore del pomeriggio, dell’immensità e del silenzio”. Commenterà Godard: “Non è facile leggere un testo del genere se hai una faccia da boxeur, ma Belmondo c’è riuscito benissimo”. Anche Jean-Pierre Melville, altro genio intrattabile, afferra l’eccentricità di Bébel. Insieme gireranno tre film. Sul set dell’ultimo, L’Aîné des Ferchaux (Lo sciacallo, 1963), litigano di brutto perché il regista maltratta l’anziano Charles Vanel. E si becca un ceffone da Jean-Paul. Comunque di lui aveva detto: “Sa abbinare come pochi virilità ed eleganza. Ma, occhio: è anche dotato di un’intensa vita interiore”. Certo, se gli chiedono quale sia il suo libro preferito, Belmondo risponde: il quotidiano sportivo L’Équipe. Ma confessa pure: “Quando sono giù di corda, rileggo Rimbaud. Allora mi ricarico”. E così la critica più cultivée è rassicurata» (Cicala). «In questi anni lavora anche con autori del calibro di Claude Sautet (Asfalto che scotta del 1960), Vittorio De Sica (La ciociara), Mauro Bolognini (La viaccia), Jean-Pierre Melville (Léon Morin, prete, Lo spione e Lo sciacallo) e Philippe de Broca: per quest’ultimo interpreta una sorta di Robin Hood alla francese in Cartouche (1962) e un soldato alla ricerca della sua fidanzata rapita nell’avventuroso L’uomo di Rio (1964). Ormai considerato uno degli interpreti più eclettici dell’industria transalpina, Belmondo continua a dividersi tra il cinema popolare e quello impegnato: al secondo gruppo, nella seconda metà degli anni ’60, appartengono Parigi brucia? di René Clément, Il ladro di Parigi di Louis Malle, Un tipo che mi piace di Claude Lelouch e La mia droga si chiama Julie di François Truffaut» (Andrea Chimento). «Nel Paese che li ha inventati, l’idillio tra JP e gli intellettuali avrà vita breve. Nel maggio ’68, mentre Parigi arde di sommosse, Belmondo che fa? Se la spassa in Senegal con Ursula Andress, sua nuova fiamma, impegnata sul set di un film che non merita menzione. “Ero lontano, ma non sarei sceso in strada a manifestare”, avrebbe ammesso lui. Rincarando in altra occasione: “La politica è un lusso che non posso permettermi. Non approvo attori e cantanti che utilizzano la professione per fare attivismo. Sono di destra, di sinistra, di centro, di ovunque. I miei elettori sono gli spettatori”. A sentirlo parlare così, qualcuno ci resta male. Nel passaggio dalla gretta Quarta Repubblica al neo-patriarcato gaullista, negli anni della sporca guerra d’Algeria, Belmondo era diventato emblema del ribellismo di una generazione che si sentiva scippata della propria gioventù. Non solo. In quella temperie si era persino lasciato sedurre dall’engagement al punto da guidare il sindacato attori, vicino alla gauchista Cgt. Poi di botto, ringrazia, molla tutto e si tuffa in un vorace disimpegno. Perché? Un indizio di risposta lo si potrebbe trovare in una foto del ’64 che lo ritrae durante una riunione insieme ad altri rappresentanti sindacali. Siedono intorno a un tavolo ricoperto di scartoffie. In giacca e cravatta, Belmondo non sembra mai stato tanto fuori ruolo. La fuga dalla politica avrà effetti anche sulla carriera. Sin dall’inizio Bébel ha alternato film commerciali a copioni autoriali (Truffaut, Chabrol, Resnais…), ma progressivamente accetterà solo prodotti di cassetta. E che però a riguardarli sono spesso irresistibili. Specie se firmati Philippe de Broca (L’homme de Rio, Le magnifique, L’incorrigible…) o Henri Verneuil (Le Casse, Peur sur la ville…). Senza contare ovviamente il sontuoso Borsalino (1970): dal duello Belmondo-Delon uscì forse vincitore il secondo, ma ai punti. Intanto il box office se ne veniva giù. Siamo ormai in piena apoteosi divistica. Jean-Paul è il piacione che, dalla Andress a Laura Antonelli, acchiappa le star più concupite su piazza. È lo scavezzacollo che nelle scene acrobatiche non vuole controfigure – e le rifiuterà fino ai 65 anni. È l’idolo del gossip e delle rituali bagarre col paparazzame. Strega le folle e ne è dominato: “Mi piacerebbe interpretare il perdente, la vittima, ma il pubblico non me lo perdonerebbe”. La critica militante lo dà per fottuto, venduto al sistema. Le inevitabili femministe lo crocifiggono come un macho trogloditico. Eppure Belmondo è rimasto sostanzialmente quello di prima e di sempre» (Cicala). «Negli anni ’70, nonostante alcune sporadiche apparizioni in pellicole d’autore, come Stavisky (1974) di Alain Resnais, diventa un’icona del genere poliziesco, interpretando molte scene pericolose senza controfigura: tra i titoli da ricordare, Il clan dei marsigliesi (1972) di José Giovanni e Lo sparviero (1976) di Philippe Labro. In seguito l’attore si dedicherà sempre più al teatro e sempre meno al cinema: riceverà comunque nel 1989 il premio César come miglior attore protagonista per il film Una vita non basta di Claude Lelouch, con cui tornerà a lavorare nel 1995 ne I miserabili, una curiosa rivisitazione del celebre romanzo di Victor Hugo. Dopo altre (occasionali e sfortunate) apparizioni sul grande schermo, tra cui quelle nel fallimentare Uno dei due (1998) di Patrice Leconte e in Amazone (2000) dell’amico Philippe de Broca, nell’agosto del 2001 viene colpito da un’ischemia cerebrale che lo terrà lontano dalle scene fino al 2008, anno in cui tornerà a lavorare in Un homme et son chien di Francis Huster: pellicola maltrattata dalla critica e dal pubblico, rifacimento di Umberto D. di Vittorio De Sica» (Chimento) • «Belmondo detto Bébel, un soprannome nato da un malinteso, una storpiatura: gli amici lo chiamavano Pépé come Jean Gabin delinquente in Pépé le Moko» (Valerio Cappelli) • Quattro figli: tre avuti fra il 1958 e il 1963 dalla prima moglie, la ballerina Élodie Constantin, una nel 2004 dalla seconda moglie, la ballerina Natty Tardivel, più giovane di lui di oltre trent’anni, da cui divorziò nel 2008 dopo sei anni di matrimonio. Numerosissime relazioni sentimentali: tra le più importanti, quelle con le attrici Ursula Andress e Laura Antonelli; assai discusso, da ultimo, il rapporto, successivo al divorzio dalla seconda moglie, con l’ex coniglietta di Playboy Barbara Gandolfi, di oltre quarant’anni più giovane di lui, che secondo indiscrezioni avrebbe raggirato economicamente l’attore prima che egli si risolvesse a lasciarla. «Le donne sono al loro meglio passati i trent’anni, ma gli uomini che hanno passato i trent’anni sono troppo vecchi per capirlo» • «Attore mascalzone, teppista, eternamente spensierato» (Giulia Echites). «Lo sguardo mobile disciplinato al sorriso, i capelli fluenti, il fisico asciutto e muscoloso, la voce da fascinoso figlio di puttana (in Italia lo doppiava Pino Locchi, lo stesso di Sean Connery): per anni Belmondo ha incarnato l’avventuriero francese burlone e generoso, sorretto da una popolarità senza cedimenti» (Michele Anselmi). «Non ha perso quell’aria guascona che lo accompagna fin dall’adolescenza. Non a caso ancora oggi viene chiamato “simpatica canaglia”» (Maria Volpe). «È stato attore, poi divo, quindi monumento. Divo e monumento hanno giocoforza finito per oscurare l’attore. Ed è un vero peccato, se non altro perché il personaggio-Belmondo – le tendre voyou, il tenero balordo – è interamente frutto di una prodezza attoriale. O, che è lo stesso, di un favoloso inganno. Da Jean Gabin a Lino Ventura, i duri del cinema classico francese venivano per lo più dal quarto stato. Del milieu delinquenziale seppero restituire gli atteggiamenti perché durante la gavetta lo avevano quantomeno costeggiato. Belmondo no. Lui la pègre, la mala, l’ha vista solo nei film. […] Che si tratti di guardie o ladri, la sua cifra è immergersi in un ruolo senza mai aderirvi del tutto. Un pudore autoironico, uno scarto malinconico glielo impediscono. E lo rendono imprevedibile: “Quando grido ‘Azione!’ non so mai che cosa Jean-Paul dirà, che cosa farà”, raccontava Jean Becker. Bébel è l’anti-Actors Studio. Non per teoria: per temperamento. Alla mistica dell’immedesimazione preferisce lo scetticismo sardonico di chi non si prende mai sul serio perché, al fondo, non saprà mai chi è. Non per niente in più di una sequenza lo vediamo pavoneggiarsi interrogativo davanti a uno specchio e poi scacciare la vertigine identitaria catapultandosi nell’azione: un movimento perpetuo. Soave nevrotico, Belmondo non sta mai fermo. E la sua andatura diverrà leggendaria come quelle di John Wayne, Henry Fonda o Cary Grant. È il passo risoluto di uno che sembra stia andando sempre da qualche parte. Anche, e magari soprattutto, quando non va da nessuna parte. Sostennero che era l’erede di Gabin (“Ragazzo, tu sei i miei vent’anni” gli dice il vecchio Jean in Un singe en hiverQuando torna l’inverno – 1962). Ma per Bébel – che ha sempre venerato i clown – la vera divinità è l’anarcoide e scimmiesco Michel Simon, di cui, per inciso, è sempre stato un formidabile imitatore. […] Ancora ci si chiede che razza di attore sia stato Belmondo, se più comico o più tragico. Nei suoi film non c’è mai tempo per deciderlo. Forse perché Bébel è tra quelli che hanno raggiunto il segreto più inammissibile della tragedia, cioè la sua essenza di commedia. Se non di farsa. Per quanto smagato, Belmondo non è un eroe della disillusione, non è un revenu de tout, un amaro “reduce da tutto”, come dicono dalle sue parti. E fughe, risse, sparatorie hanno per lui il puro valore anti-utilitaristico del gesto circense» (Cicala) • «Un’anomala traiettoria artistica, quella di Belmondo: ha fatto blockbuster, però nasce nell’autorialità della Nouvelle vague: “Ne ero il simbolo grazie a Fino all’ultimo respiro di Godard. Fu quel personaggio a darmi un’aria da eroe. Ma io non mi ci sono mai sentito”. Però ha dovuto combattere anche con i pregiudizi dei produttori. “All’inizio dicevano che non avevo un volto da seduttore. Tutto cambiò dopo il film di Godard. Ma, se fossi rimasto fermo al personaggio di quel film, avrei allontanato il pubblico. In ogni progetto ho cercato di portare qualcosa di nuovo”. A Hollywood non è mai andato. “Ci sono stato in vacanza. Mi hanno proposto film che ho rifiutato. Ho preferito restare chez moi”. […] Non dà l’idea di avere rimpianti. “Infatti non ne ho. Ho avuto una bella carriera, mi sono divertito come un matto e cerco di non dimenticare mai da dove sono venuto. Alcuni film hanno avuto successo, altri non l’hanno avuto. Ma questa è la vita”» (Cappelli). «Édith Piaf risolse la questione una volta per tutte: “Esco con Alain Delon ma torno a casa con Belmondo”. Con quel naso schiacciato, l’andatura scomposta, il cognome da latin lover preso dalla famiglia paterna piemontese, Jean-Paul Belmondo ha sempre fatto impazzire colleghi dello spettacolo e pubblico più di quanto fosse ragionevole. […] Belmondo è amato, forse ancor più dopo il malore di qualche anno fa, perché ha amato la vita più di chiunque abbia incrociato il suo cammino. […] Che differenza con Alain Delon, amico più che rivale, nonostante Édith Piaf. “Hanno sempre cercato di metterci in competizione, come se uno di noi dovesse primeggiare per forza. E invece siamo sempre andati d’accordo io e Alain, ci siamo voluti un gran bene. La più grande differenza tra noi è stata l’infanzia, e questo spiega tutto. Quanto la sua è stata povera e infelice, tanto la mia è stata piena di amore e allegria. Abbiamo finito per diventare, nell’immaginario delle persone, lui il bel tenebroso e io la simpatica canaglia, ma è un po’ la verità, e dipende dai primi anni delle nostre vite. Quelli decidono tutto”» (Montefiori). «Una vita vissuta a cento all’ora, divorata senza moderazione, senza mai prenderla veramente sul serio, senza mai smarrire quel sorriso malizioso, da viveur e seduttore impenitente. […] iIn tutti i suoi film, sia quelli autoriali che quelli più commerciali, non ha mai avuto bisogno di concentrarsi, o meglio non ce la faceva, perché era contro la sua natura. “Scherzare, fare lo stupido era la mia maniera di prepararmi. Durante le riprese di Léon Morin, prete, Melville mi ha chiesto giustamente di concentrarmi. Una sola volta, per una scena seria. Sono ritornato nel mio camerino. Quando sono venuti a cercarmi, dormivo. Anche Depardieu è così, Alain Delon no. Ognuno ha il suo stile”, racconta. […] Il “brutto-affascinante del cinema francese” […] non è mai stato un tipo livoroso. Ciò non ha impedito vendette spietate, ironicamente spietate, contro chi aveva sottostimato il suo talento, anche con un certo snobismo. Come contro quel Pierre Dux, professore al Conservatoire national supérieur d’art dramatique, che gli aveva predetto che con quel fisico mai e poi mai avrebbe preso una donna tra le braccia. Dovette presto ricredersi: un giorno Dux incontrò Belmondo sugli Champs Élysées con Ursula Andress, la leggendaria Bond girl, abbandonata appassionatamente tra le sue braccia. Nel 1970, lo stesso Dux dirigeva la Comédie-Française e per il ruolo di Scapino, protagonista della pièce di Molière Le furberie di Scapino, pensò di chiamare proprio Bébel. “La mia vendetta è stata di dirgli: ‘Non, monsieur’”, racconta oggi Belmondo. […] Era una Francia gaia, creativa, insolente dinamitarda, ribelle quella degli anni Sessanta, dove “la dolce vita, uno spirito impertinente e le belle ragazze” andavano a braccetto, dice Bébel, lui che di belle ragazze se ne intendeva eccome. Era la Francia di De Gaulle, “il solo uomo politico che mi abbia impressionato”, la Francia che usciva dalla guerra d’Algeria, dove regnava la “spensieratezza e la gioia di aver ritrovato la libertà”, si ricorda l’attore parigino. […] Della morte dice di non avere paura. Anche perché, come ha scritto il critico letterario Yann Moix, “Belmondo ha altro da fare che morire”» (Zanon).