Corriere della Sera, 8 aprile 2019
Intervista a Giulia Ligresti
Unbroken . Unbroken . Unbroken . Cioè «non farti spezzare». Lo ha scritto centinaia di volte. Per 21 giorni. In stampatello. In corsivo. A lettere piccolissime. A caratteri cubitali. Nel grande block notes a quadretti, stropicciato e con le orecchie agli angoli. «Cara bimba mia, senza di te non ce l’avrei mai fatta». E più in là: Unbroken . «Amici vi sento tutti vicini». Unbroken . Mai smettere, mai smettere, mai smettere. Di crederci. Alla giustizia, alla verità, alla famiglia. E quando le porte di San Vittore si sono chiuse alle sue spalle, quella parola-mantra è diventata un impegno: «Ciò che è accaduto a me non deve succedere a nessuno, mai più».
Giulia Ligresti, pochi giorni dopo la sentenza che l’ha assolta dalle accuse di falso in bilancio e aggiottaggio nel caso Fonsai, annullando il patteggiamento e 62 giorni di carcere, è un fiume in piena di emozioni e sentimenti. Ma non c’è una Giulia prima e dopo la vicenda giudiziaria. Quella che si racconterà in queste righe è lei, un po’ la ragazza sportiva che cercava il vento sul mare, un po’ la giovane che cercava la sua strada negli impegni di famiglia, un po’ la madre con in braccio (sempre) Ginny, Federico e Leonardo, un po’ la persona impegnata nel sociale e, sì, un po’ anche la donna alla quale piaceva fare shopping. Perché no? Quello che le è successo ha aggiunto, più che tolto. Un solo desiderio, impossibile: «Che ci fosse papà (l’ingegnere Salvatore Ligresti, ndr) e con lui ricostruire la storia: Milano non sarebbe quella che è ora se non ci fosse stata la sua determinazione e visione».
I ricordi cominciano dai pantaloni con la striscia bianca che indossa.
«Li portavo in carcere. Comodi vero? Ovs. Quando sono uscita ho regalato tutto. Ma non questi. E non le ciabatte, quelle bisogna buttarle; come lo spazzolino, che devi spaccare in due: è il rito del non ritorno. I primi vestiti invece me li ha rubati una detenuta che è uscita all’improvviso. Poi la mia compagna di stanza mi ha detto: “Giulia, mi stai simpatica, ma cosa pensavi? Siamo in carcere. Con me nessuno oserà più portarti via nulla. Mai più. A San Vittore, ho trovato un’umanità incredibile, dalle compagne al direttore, la vicedirettrice e gli assistenti. Quando mi hanno detto che sarei andata via, ho pensato: come faccio con la partita di pallavolo contro il maschile? E le mie allieve del corso di yoga? È stato un secondo, poi è esplosa la felicità di riabbracciare i miei. Però ho promesso a tutte che le lezioni le farò. Vediamo. Quando sono uscita c’era la ola. Non ho mai smesso di crederci e ho impegnato tutto il tempo di cose. Mie e delle altre. Sempre attenta a non urtare nessuno. Una legge che devi imparare: il rispetto degli spazi che lì sono soggettivi. C’è tanta aggressività e violenza, tanta energia compressa. Il carcere non è solitudine, come erroneamente si pensa. È invece condivisione, più di qualunque altro luogo. È solidarietà, comunione, sopravvivenza, ossessione. Ogni discorso è ripetuto all’infinito, ogni novità vissuta come un evento speciale. E ogni cambiamento fa paura».
La prima volta vennero all’improvviso, la seconda se l’aspettava.
«Era l’una di notte quando entrai in cella, per fortuna a Milano, avevo la forza dei miei figli, l’abbraccio dei miei fratelli e di tutti i nipoti. Ogni mattina, dentro, correvo per chilometri nel quadrato del cortile, anche quando pioveva. Alle 11 salivo, avvocati, colloqui e alle 13 tornavo giù e ancora “tu-tu-tu” (la corsa, ndr) e alle 16 cominciavo i corsi: giornalismo, musica, palestra, canto gospel, sartoria. Suor Chicca mi diceva: “Giulia non ti trovo mai”. E poi il mio corso di yoga. Pensavo a Vercelli e a quei 41 giorni d’inferno. A Milano ho detto a tutti “se mi muovo posso farcela”. E alla sera, giocavo a carte con le altre: all’assassino, sì, ho imparato. E riso, tanto. E pianto».
Già, Vercelli, dove aveva deciso di non mangiare più.
«Stavo male, pensavo ai miei figli. Stavo impazzendo. E ho patteggiato. Leo aveva 9 anni. Le zanzare mi massacravano. Ero in cella da sola. Facevo qualche flessione per muovermi, ma per 23 ore stavo lì. Fra la turca e la branda. Era agosto. Un inferno. Lì sì che la solitudine mi ha piegata, annientata, non trovavo una ragione. Mi sentivo innocente, ma nessuno sentiva la voce che urlava dentro di me. Uscivano notizie non controllate. E l’idea che chi non mi conosceva era lì a sputare sentenze e giudizi sulla base di ciò che veniva raccontato e scritto, spesso con un fine preciso, mi distruggeva, giorno dopo giorno. Nel mio caso, volevano farmi apparire ridicola e superficiale, nel modo più maschilista e meschino, utilizzando stereotipi del tipo shopping uguale oca ricca e viziata».
La prima volta che uscì è stata rabbia o desiderio di farla pagare a tutti, o resa?
«Nulla di tutto questo. Ero felice di riabbracciare i miei figli, la mia famiglia. Mi stupì e mi stupisce ancora quanto non ci si rende conto che anche i gesti più banali e normali siano preziosi: ora trovo insopportabile chi non lo capisce. In carcere sono vite rinchiuse, ma vite con un quotidiano che è sopravvivenza alla quale nessuno è abituato. È uno zoo umano di culture, abitudini, mentalità e background sociali dove come in una babele ognuno cerca i propri simili. Ricevevo e cercavo di dare sempre qualcosa agli altri. Lì è così. Senza Elena, Anna, Giada, Michela, Radu e molte altre non ce l’avrei fatta. Quei giorni – difficilissimi – mi sono entrati nella pelle; un’esperienza fortissima, mai io non ho mai voluta una vita banale. La maggior parte delle ragazze là dentro però merita una seconda possibilità».
Cosa sogna ora?
«Di tornare in India dai miei bambini della Vanaprastha Children’s Home a sud di Bangalore, riprendere ad andare in Afghanistan, e nella striscia di Gaza. E voglio raccogliere attrezzature sportive per il progetto con i bambini “Sport e resilienza: una speranza per la Siria”. Voglio andare a trovare mio figlio Federico a Manila. E poi c’è il mio lavoro nel design, al salone sarò in mostra con i miei oggetti “Imperfect Love”. Questa ero io e questa sono io. Mai più altro».