Corriere della Sera, 8 aprile 2019
Il peso delle lobby sulle scelte europee
Bruxelles supera Washington e si consacra capitale mondiale del lobbismo: sono 11.801 i gruppi di pressione elencati nel Registro della Trasparenza istituito dalla Commissione Europea.
A Bruxelles si fanno le leggi che riguardano 508 milioni di cittadini, e le lobby lavorano perché non contrastino gli interessi di imprese e associazioni che rappresentano: industrie, aziende private, grandi studi legali, ma anche sindacati, ong, associazioni di consumatori.
Da Google a Eni: quanto spendono? Ai primi posti nella classifica ci sono il Cefic o Consiglio delle industrie chimiche europee (12 milioni di euro di spese minime dichiarate nel 2018), Google (6 milioni nel 2017), Microsoft (5 milioni), BusinessEurope (la Confindustria europea, 4 milioni). C’è anche Huawei, il colosso cinese della telefonia, 2.190.000 di costi dichiarati nel 2017. Fra i singoli Paesi, l’Italia, con 841 lobby, è al quinto posto dopo il Belgio (dove ovviamente si registrano molti gruppi stranieri), la Germania, la Gran Bretagna, la Francia. Fra le principali, per costi minimi dichiarati, troviamo: Altroconsumo (5 milioni di euro), Enel (2 milioni), Eni (1.250.000), Confindustria (900.000). Tutti insieme, i quasi dodicimila gruppi di pressione di Bruxelles spendono circa 1,5 miliardi all’anno. A che cosa servono? A mantenere uffici e personale, a fare convegni e campagne d’opinione in diversi Paesi. O a comprare voti, leggi e figure delle istituzioni, questo è il dubbio spesso evocato.
Cosa fa il lobbistaIl lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’impresa e della società. Un’attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza. Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbysti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International – esercitare il lobbysmo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».
Il lobbismo soft Ci sono tanti modi per fare lobbysmo, e a Bruxelles bisogna esserci, altrimenti ci sono solo gli «altri». L’Ong Altroconsumo ha scritto nel 2018 agli eurodeputati italiani, chiedendo loro alcuni emendamenti a una proposta di direttiva sulle vendite a distanza. Si voleva che anche ai beni digitali fossero estese ampie garanzie contro i difetti di funzionamento, e così è stato. Sempre Altroconsumo ha influenzato le direttive Ue contro l’impiego degli antibiotici negli allevamenti intensivi. Slow Food ha fatto sentire la sua voce nelle direttive sugli Ogm. Altroconsumo dichiara di essere finanziata al 98,08 % da quote e abbonamenti degli associati. Slow Food, costi minimi di 800.000 euro per il 2017, riceve sovvenzioni Ue per 730.285 euro e un contributo di 816.331 euro degli aderenti.
A volte basta modificare un verboIl lobbysmo delle imprese è più aggressivo. Di norma, ogni proposta di legge raccoglie in Parlamento 50-100 emendamenti, ma a volte sono molti di più, e in questi casi possono infilarsi quelli proposti – o scritti direttamente – dai lobbysti, e ricopiati pari pari dai deputati. Quando si discusse l’ultima riforma della politica agricola, gli emendamenti furono 8.000. Per la direttiva che avrebbe dovuto regolare meglio gli «hedge fund», i fondi di investimento a rischio, ne piovvero 1.600: secondo fonti ufficiose, metà erano stati scritti direttamente dai lobbysti della finanza.
Anno 2013, direttiva sulla protezione dei dati personali firmata dalla commissaria Ue Viviane Reding, che parlerà poi di «lobbying feroce». Un esempio, l’articolo 35 del testo originale della direttiva dice: «Il controllore e il processore (di certi dati personali, ndr) devono designare un responsabile della protezione...». La lobby della Camera di Commercio americana chiede che al «devono» si sostituisca un più morbido «possono». Il deputato conservatore inglese Sjjad Karim rilancia: nel suo emendamento, accolto, si legge «dovrebbero». La differenza fra «dovrebbero» e «devono» non è banale: sparisce l’obbligo tassativo.
La guerra del copyright L’ultima guerra fra le lobby è scoppiata intorno alla direttiva sul copyright, appena approvata dall’Europarlamento. Da una parte Google e gli altri giganti dell’high tech, dall’altra musicisti, editori, giornalisti, e le società che raccolgono i loro diritti d’autore, schierate contro il «no» allo sfruttamento gratuito sul Web di opere che hanno diritto a un copyright.
Dal novembre 2014 agli inizi del 2019 si sono avuti 765 incontri fra lobbysti e Commissione, nei cui verbali compare la parola «copyright». Google ha avuto tre incontri al mese per tutto il 2018 con i vertici della Commissione (e le associazioni per i diritti d’autore ancora di più). In estate, i deputati Verdi sono stati bombardati da tremila email pro o contro le nuove norme. Virginie Roziere, deputata favorevole, ne ha ricevute 400 mila, tutte contrarie. Alla fine la direttiva ha disposto che i giganti dell’high-tech (nonostante le pesantissime pressioni) ora debbano chiedere le autorizzazioni, pagare autori ed editori, e intervenire sulle violazioni dei diritti.
Emissioni, plastica e farmaciUn’altra guerra è stata quella accesa dalle norme sulla plastica monouso. Il Cefic, l’ombrello delle industrie chimiche (oggi schierato contro la plastica), nel 2010 dichiara sei milioni di costi di lobbying, che nel 2018 diventano 12. Nel frattempo, dal dicembre 2014 al febbraio 2019, ottiene 80 incontri con la Commissione Europea, più o meno uno ogni 23 giorni. Significa che questa è una lobby influente, ascoltata. Poi c’è il pianeta di «Big Pharma». Secondo un rapporto del 2015, le lobby dei farmaci spendono tutte insieme 40 milioni di euro. Questi investimenti riguarderebbero anche le decisioni sui diritti di proprietà, o i delicati test sui farmaci. Altro settore «caldo» è quello dell’automobile. Le spese delle sue lobby a Bruxelles sono passate dai 7,6 milioni di euro del 2011 ai 20,2 milioni nel 2014. Indizio per azzardare un perché: nel 2013 si discutevano le norme Ue sulle emissioni di Co2 delle auto, nel 2014 quelle sull’ossido d’azoto.
I casi di corruzione L’attività delle lobby è per sua natura opaca, e il panorama non è sempre tutto bianco o tutto nero. A volte è proprio nero. Novembre 2010-marzo 2011, due giornalisti del Sunday Times con telecamera nascosta si presentano come lobbysti a Ernst Strasser, capogruppo del partito popolare austriaco: «Vorremmo cambiare una direttiva, ci aiuta?». Lui accetta, loro pubblicano tutto. Strasser finirà in carcere per corruzione. Come l’eurodeputato sloveno Zoran Thaler e il romeno Adrian Severin, incastrati dalla stessa telecamera. Stessa disponibilità: 100.000 euro a colpo.
Un anno dopo, ottobre 2012, il commissario Ue alla Salute, il maltese John Dalli, viene cacciato per i suoi legami con un lobbista del tabacco. Per aggiustare una direttiva Ue c’erano in ballo 60 milioni.