La Stampa, 8 aprile 2019
Le elezioni inquinate di Israele
Finora ho evitato di scrivere della campagna elettorale israeliana, che si concluderà la prossima settimana. Ho 82 anni e nel corso della mia lunga vita ho visto e partecipato a non poche consultazioni elettorali. Indubbiamente ci sono state in passato campagne più turbolente e drammatiche di questa, con grandi manifestazioni, episodi di violenza e discorsi appassionati e virulenti.
La democrazia israeliana è giovane, ha solo settant’anni, ma fin dal suo inizio gli israeliani hanno avuto la sensazione che il giorno delle elezioni fosse un evento solenne, speciale. In molti arrivavano ai seggi vestiti a festa, talvolta accompagnati dai figli perché questi ultimi potessero infilare la scheda nell’urna e percepire così l’importanza del sistema democratico. E poiché nel giorno delle elezioni molti soldati sono lontani da casa, l’esercito ha messo a punto un metodo di voto molto efficiente, così da consentire a ognuno di loro, anche a chi si trova in una base sperduta lungo il confine, di adempiere al proprio dovere civico e votare.
Trump e Berlusconi
Questa volta, però, le elezioni non sono turbolente, bensì inquinate. È forse questa la definizione migliore di ciò che sta accadendo in Israele. E la principale fonte del loro inquinamento è il primo ministro Benjamin Netanyahu, che sta lottando non tanto per mantenere il proprio incarico quanto per tentare di sottrarsi al processo che lo attende.
Benjamin Netanyahu non assomiglia a Trump che, a mio parere, sarà probabilmente considerato in futuro più come una curiosità che come un leader. In fondo, Trump non aveva veramente intenzione di essere eletto, voleva solo approfittare della campagna elettorale per promuovere i propri interessi economici. Netanyahu assomiglia più a Berlusconi. E benché io non conosca la biografia privata dell’ex presidente del consiglio italiano, ho la sensazione che fosse un politico scaltro, che ha trasformato il controllo dei media in una vera e propria arte, piena di creatività.
Netanyahu ha un’enorme esperienza politica e, in quanto ex cittadino americano, una profonda conoscenza del sistema amministrativo e religioso degli Stati Uniti, il che ha notevolmente contribuito a renderlo un personaggio politico forte e astuto. A differenza di Berlusconi non possiede reti televisive, case editrici e giornali ma riesce comunque a esercitare sui mass media un controllo palese, o occulto, mediante Internet, blog, tweet e commentatori seriali al suo servizio. Nella sua residenza ufficiale vive anche il figlio ventiseienne, che coordina questo sofisticato sistema, creando un costante inquinamento del dibattito pubblico, inaspritosi nelle ultime settimane.
Durante questa campagna elettorale non si è quasi mai parlato di ideologia. Anche i tre ex Capi di stato maggiore che hanno formato con Yair Lapid (popolare ex giornalista N.d.T.) un partito chiamato «Blu e bianco» non si sono pronunciati in modo significativo a livello ideologico o politico. Si sono limitati a ribadire la propria, forte, volontà di sostituire il governo e ad accennare vagamente a una eventuale separazione dalla Cisgiordania palestinese, senza entrare nei dettagli di come questo possa avvenire. I loro discorsi sono fumosi e assolutamente non vincolanti. Neppure i responsabili della propaganda elettorale del Likud hanno delineato un qualche programma politico e parlano della stato attuale delle cose come se fosse naturale e definitivo.
In fin dei conti, Israele ha rapporti di pace con l’Egitto e una collaborazione concreta con il Regno di Giordania. La Siria è ancora nel caos e impegnata nel tentativo di riprendersi dalla guerra civile. L’Iran è lontano e Hezbollah, in Libano, è attualmente parte del governo e non intende distruggere il proprio Paese per il problema palestinese. I palestinesi di Gaza sono governati da Hamas, che non riconosce Israele e vuole distruggerlo mediante dimostrazioni di protesta di giovani affamati e disoccupati a ridosso del confine. I palestinesi di Cisgiordania sono completamente indifferenti alle intemperanze di Hamas e non provano la minima solidarietà per le loro gazzarre. E i due milioni di cittadini palestinesi israeliani sono sempre più indifferenti e alienati in uno stato che non fa che ribadire la propria ebraicità. Ultimamente parecchi giovani arabi hanno addirittura proclamato di non avere intenzione di partecipare alle elezioni, né di votare per i partiti arabi che dovrebbero rappresentarli.
La scelta dei cittadini arabi
Una simile eventualità sarebbe un nuovo colpo per il centro-sinistra alle prossime elezioni. Se infatti i palestinesi israeliani votassero in massa potrebbero creare un blocco elettorale che spedirebbe il Likud e Netanyahu all’opposizione. A mio parere il più grande peccato di Netanyahu e dei suoi sostenitori è quello di fomentare l’odio e il disprezzo degli ebrei israeliani nei confronti dei palestinesi, compresi quelli che sono cittadini dello Stato ebraico. Dal momento che il mondo arabo si è molto indebolito e i palestinesi sono stati abbandonati a se stessi (anche a causa dei loro numerosi errori) ha cominciato a crearsi un senso di alienazione tra loro e gli ebrei e questo è una cosa molto grave in quanto entrambe le comunità sono destinate a vivere in un unico Stato. I palestinesi israeliani non sono immigranti, né rifugiati. Israele è la loro madrepatria. Parlano l’ebraico e, a eccezione dell’esercito, sono presenti in tutti gli ambiti della nostra vita. Dovrebbero quindi aiutare i partiti del centro e della sinistra in un momento tanto cruciale in cui, in vista delle prossime elezioni, ci troviamo a un bivio.
I gruppi razzisti e religiosi radicali si rafforzeranno nel parlamento israeliano oppure questa tendenza si fermerà e la normalizzazione sionista potrà essere portata avanti in una maniera più illuminata?
Traduzione di Alessandra Shomroni