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 2019  aprile 08 Lunedì calendario

La crisi delle badanti

«Nicoleta, sei una schifosa! Nicoleta, pulisci! Nicoleta, sta’ zitta! «Le sento sempre, quelle voci…». Nelle orecchie ronzano ancora le urla del vecchio malato d’Alzheimer e di sua moglie. Nella mente, i ricordi della casa di Treviso: una prigione senza sonno e senza permessi, né sabati né domeniche. «Quei signori me li sogno tutte le notti. Due zombie! M’afferrano, mi fanno male!…». All’ombra d’un carrubo, ingoffita d’un soprabito nero che invecchia il suo corpo cinquantaduenne, Nicoleta sta seduta a fissare le ortensie della clinica. Ogni mezzogiorno, stessa panchina. Dieci anni da badante e ora più nessuno a cui badare, nemmeno se stessa. Il tempo, lo trascorre a fare la terapia: «Quando sono tornata a casa, nel 2012, mi sono accorta che parlavo con le voci. Mi sentivo prigioniera, non dormivo mai, scappavo. Avevo attacchi di panico, piangevo. I miei due figli mi guardavano come una sconosciuta. Avevano ragione: erano cresciuti senza vedermi, ormai era passato troppo tempo... Alla fine se ne sono andati via». Nicoleta sorride nel vuoto: «Io sono rimasta qui, loro sono fuggiti a vivere in Sicilia. Ed è come prima: non ci vediamo mai». Meglio così: «Ma sì, che cosa ci stavano a fare con me? Hanno una vita da vivere. La mia, io l’ho regalata all’Italia».
Vite a perdere Ahi serva Romania, di dolore ostello. All’Istituto psichiatrico Socola di Iasi, le Nicolete ricoverate sono più di duecento l’anno. Depresse, inappetenti, insonni, schizofreniche, ansiose, impanicate, allucinate, ossessionate. Impazzite. Aspiranti suicide. Badanti che prendiamo in casa e crediamo di conoscere – nel nostro Paese sono circa un milione, solo la Siria esporta in Europa più migranti della Romania – e diventano invece vite a perdere, quando tornano da dove vennero. Il loro disturbo ha un nome scientifico che ci provoca, in quanto maggiori importatori europei d’affetto a pagamento: «sindrome Italia». Uno stress diagnosticato e chiamato così per la prima volta da due psichiatri di Kiev: nel 2005, avevano osservato sintomi comuni a molte ucraine e romene e moldave, ma pure filippine o sudamericane. Tutte emigrate per anni ad assistere anziani nell’Europa ricca, lontane da figli e mariti. «Più che una malattia, la “sindrome Italia” è un fenomeno medico-sociale», spiega Petronela Nechita, primaria psichiatra della clinica di Iasi: «C’entrano la mancanza prolungata di sonno, il distacco dalla famiglia, l’aver delegato la maternità a nonni, mariti, vicini di casa... Abbiamo molta casistica. S’è aggravata quando le romene dal Meridione, dove lavoravano nei campi ed erano pagate meno, si sono spostate ad assistere gli anziani del Nord Italia: tra le nostre pazienti ci sono soprattutto quelle che rifiutavano i giorni di riposo e le ore libere per guadagnare meglio, distrutte da ritmi massacranti. Nessuno può curare da solo un demente o una persona non autosufficiente: 24 ore al giorno, senza mai una sosta. Col fardello mentale di quel che ci si è lasciati alle spalle. Anch’io e lei ci ammaleremmo». Al ritorno in Romania, la terapia della «sindrome Italia» può durare anche cinque anni e di rado la passa la mutua: 240 euro ogni dodici mesi, uno stipendio medio. Un terzo delle ricoverate tenta almeno una volta il suicidio, e spesso ci riesce. Ma è una strage silenziosa, perché di solito è la famiglia a chiedere d’aggiustare l’atto di morte: nella regione più povera dell’Ue, nella Iasi «dalle cento chiese», com’è soprannominato questo capoluogo della Moldavia romena che Bergoglio visiterà in giugno, i pope ortodossi negano funerali e cimitero a chi si toglie la vita.
Villaggi spopolati C’è un sentimento quasi intraducibile, dor, che tutte le badanti conoscono: la brama di quel che s’è abbandonato, lo struggimento per ciò che non si ritroverà più, l’ansia che tanta sofferenza finisca. «Mi am un singur dor/ în linistea serii/ sa ma lasati sa mor», ho un solo dor, nel silenzio della notte lasciatemi morire… Sono versi di Mihai Eminescu, grande poeta locale: il paesello dove nacque, Botosani, oggi spopolato dall’emigrazione, rivive grazie a una sindaca che s’è organizzata ottenendo in Germania e in Spagna («ma non in Italia») contratti regolari e turni di lavoro più umani. Lo stesso a Butea: hanno asfaltato la strada, aperto asili per i bimbi abbandonati, comprato pullmini che ogni mese riportino a casa le mamme. Eccezioni, però. Perché il resto è Far West.
«Da Comarna se ne sono andati tutti, ma sono spuntati 5mila abitanti fantasma», sorride il sindaco Costel Gradinaru: sono moldave (extracomunitarie) residenti tutte allo stesso indirizzo, la casa d’un poliziotto connivente, che in questo modo ottengono più facilmente il passaporto romeno (Ue) e dalla Moldavia possono venire in Italia senza visto.
Su via Nationala dietro la stazione di Iasi, fra sale scommesse e locali di striptease, s’incontra un’umanità partente che tutte le albe fa la fila alle corriere Flixbus, AmiTuring, Atlass: 70 euro il viaggio per Padova, 110 fino a Palermo, 40 kg di bagaglio consentito, un traffico gestito da clan di zingari che di fianco alle biglietterie vendono scarpe, giacconi, telefonini raccattati chissà come in Italia. Intorno, un deserto di villette nuove e vuote, costruite con le rimesse, le finestre ancora incellofanate: «A Roma mi sono sentita una schiava – dice Gabriela Neculai, 700 euro al mese, mai un giorno di riposo in dieci anni —. Non mi compravo neanche un succo, un gelatino, mandavo tutti i soldi in Romania. Ora ho una bella casa, ma sono sola. No, non ne valeva la pena…». Carmen, 58 anni, dieci a Biella: «Potevo lavarmi una volta la settimana. Mi controllavano il cibo. E l’acqua dovevo scaldarla sui termosifoni. Adesso in famiglia non mi sopportano: sembro una spia, annoto quel che si consuma, sono ossessiva. L’Italia mi ha fatto diventare così».
«A voi italiani non importa nulla dei genitori, prendete una badante e ciao, vi fate la vostra vita – piange Elena Alexa, 60 anni e da cinque in cura —. Ho lavorato a Verona. In nero. Mi davano poco da mangiare: ero diventata 50 chili, curavo un anziano che ne pesava cento. Avevo diritto a sei mezze mele la settimana: ogni giorno, lui ne mangiava metà e io l’altra metà. Mi mettevano un letto sul corridoio, dove dormiva il cane. E le parolacce, le mani addosso: romena figlia di p…, siete tutti morti di fame! Piano piano, mi sono venuti attacchi di panico, un dolore fisso alla gola. Intanto la mia famiglia andava in rovina. Avevo abbandonato i miei genitori per curare quelli di altri. Il mio bambino dormiva con la foto sotto il cuscino, tremava sempre, mi telefonava: torna a casa, se no vado sul tetto e mi butto giù... A 19 anni, aveva già i capelli bianchi».
«Effetti collaterali» È la persona che santifica il luogo, dicono i romeni. E sono i suoi gesti a raccontarlo: a metà marzo, una tredicenne s’è impiccata. L’ultimo caso. Un effetto collaterale della «sindrome Italia» che colpisce anche i 750mila figli delle badanti, i cosiddetti orfani bianchi, narrati nei romanzi di Ingrid Coman: «È un cliché, pensare che tutti gli italiani siano indifferenti alla situazione delle badanti – commenta la scrittrice, che sta spostando la famiglia a Iasi —. Non generalizzerei. La comprensione appartiene alla persona, non alla società. Poi, però, è un dato di fatto che in Italia siamo di fronte a numerosi casi di schiavismo. E alle conseguenze che questi provocano». Silvia Dumitrache, leader italiana dell’Associazione donne romene, tiene il conto dei bambini suicidi che non hanno retto l’abbandono: un centinaio, a tutt’oggi. Nella clinica di Iasi, nascosti al mondo, sono ricoverati trenta piccoli depressi gravi. Non si sa bene che fare, perché non ci sono neuropsichiatri infantili: «Avevamo Alex, un bimbo di 7 anni rientrato in patria con la mamma – fa un esempio Mihaela Hurdurc, direttrice della scuola Caritas —. Lei si sentiva una fallita, Alex non s’adattava al nuovo mondo e rifiutava il cibo non italiano. Voleva suicidarsi: abbiamo dovuto ricoverarlo».
I disagi dei left behind sono diversi. Rabbia, ansia, difficoltà d’apprendimento: «C’è chi ha la madre via, e se ne vergogna. Chi vive coi nonni, e sono troppo anziani. Chi coi vicini, troppo estranei. Chi è rimasto proprio solo. I genitori a volte se ne vanno in Italia e non delegano la potestà: spariscono per mesi, non contattano mai la scuola. Magari cambiano scheda telefonica e i figli non hanno neanche un numero da chiamare». A una certa ora della sera, le biblioteche dei villaggi si riempiono dei ragazzini più poveri: wi-fi a disposizione, per parlare finalmente con l’Italia. «Il periodo duro della mia vita fu quando partirono sia mamma che papà – racconta un orfano bianco, Mihael Chiriac —. Il più bello, il primo Natale insieme. Avevo 10 anni, oggi ne ho 22. E mia madre è ancora a Taranto. La sento due volte al giorno, ma non è lo stesso. La voglio qui. Ho due fratelli più piccoli: quasi non la conoscono».
In una casetta ben rifatta di Comarna, al civico D786, Elena Tescovina è appena tornata da Firenze e da Milano: «Otto anni! Uscivo di casa solo per buttare la spazzatura…». L’hanno convinta sua figlia – «mamma, piuttosto mangiamo una cipolla, ma non partire più!» – e una tristezza incontenibile: «Nessuno può capire come sono stata». Quel che ha ritrovato qui, non le piace. Liti, botte, alcol. La convivenza con un marito irriconoscibile tra i rancori di lei per lui («non hai mai avuto un lavoro!...») e i rimproveri di lui a lei («parli troppo, sembri un’italiana!»…). Pura sindrome. Le consigliano tutti d’andare in clinica. Elena piange, si danna. Ma per ora no: «Io guarisco lavorando». Il pomeriggio fa 15 chilometri di bus fino a Iasi. Indossa una divisa, è guardia giurata. Turni di notte: «Devo badare ai negozi». E dice proprio così: badare.