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 2019  aprile 07 Domenica calendario

Nerone padrone di Roma


Nerone era un sognatore e sognava di abitare tutta la città. Voleva fare dell’Urbe la sua casa, trasformare Roma nell’alloggio a lui predestinato. «Roma domus fiet... Roma diventerà la sua casa: emigrate a Veio, o Quiriti, se questa casa non occuperà anche Veio», così Svetonio documenta una scritta apparsa sui muri cittadini (Nero, 38). Quando nel 54 d.C. diventa imperatore inizia a trasformare Roma nella sua residenza personale. Lo aiutano le domus e i terreni ereditati sul colle Oppio che è parte del colle Esquilino, di fronte al Palatino. Un’area verde ricca di ville, di acque, un luogo ideale.
Ecco, immaginiamolo Nerone che guarda i suoi possedimenti dall’alto del colle di Romolo: quelle distese di terreni rigogliosi appartengono a lui, il suo occhio arriva fino agli orti di Mecenate (ereditati sotto Caligola) che sono di fronte. Tutto questo è suo. Può pensare in grande. Così nasce l’idea della Domus Transitoria, una residenza magnifica che vuole unire i due colli, posti uno di fronte all’altro, separati dalla valle del Foro e da una depressione (l’area dove sarà poi costruito il Colosseo).
Una domus misteriosa oscurata dalla magnificenza della «sorella» Aurea che nascerà dopo di lei, in seguito alla sua completa cancellazione. La Transitoria scompare già nel I secolo d.C, con le fiamme del 64 che distrussero Roma; poi saranno gli uomini e la storia a farla precipitare nell’oblio. Gli autori antichi la ignorano, i Flavi costruiranno sopra un palazzo sigillandola all’ignoto per i secoli successivi.
Ma Svetonio non la dimentica, anzi consegna agli studiosi la traccia per la ricerca. «In nessun’altra cosa fu altrettanto dannoso quanto nel costruire: fece una casa che andava dal Palatino all’Esquilino, che chiamò in un primo tempo “transitoria”», così lo storico (Nero, 31, 1) racconta della dimora imperiale e diventa la fonte principale della sua esistenza.
È strano il destino della domus che precedette la più nota Aurea, che le deve moltissimo perché se non vi fosse stata la prima non sarebbe, forse, mai nata la seconda. Ancora di più perché questa residenza è stata seppellita dalla terra e dalla memoria, visto che riappare allo studio degli archeologi poco meno di tre secoli fa. Nel 1721 gli scavi voluti dai Farnese portarono alla luce i cosiddetti «Bagni di Livia», nominati così perché le tracce delle murature furono erroneamente scambiate per condutture idriche. Poi bisognerà aspettare il 1929, quando l’archeologo britannico Thomas Ashby attribuisce ulteriori ambienti e strutture scoperti da Giacomo Boni tra il 1910 e il 1914 alla dimora imperiale. «La casa che andava dal Palatino all’Esquilino», appunto.
Un pezzo della residenza imperiale, ovvero parte dei suggestivi ambienti del palazzo di Nerone sul colle Palatino, ubicati sotto la Cenatio Iovis della Domus Flavia, dopo un lungo recupero e restauro saranno aperti dal prossimo 12 aprile, torneranno a far parte integrante del colle di Romolo e delle aree visitabili del parco archeologico del Colosseo. «La restituzione al pubblico di questo lembo del palazzo di Nerone vuole costituire l’incipit dell’itinerario neroniano che intende collegare gli ambienti lussuosi sul Palatino a quanto resta della Domus Aurea sul colle Oppio, per offrire al visitatore uno tra i percorsi più affascinanti della Roma antica», spiega Alfonsina Russo, direttrice del parco archeologico del Colosseo.
Si tratta ovviamente di un brandello della magnifica dimora che Nerone avrebbe voluto ad ispirazione (e copia) delle regge dei Tolomei di Alessandria d’Egitto, dei Faraoni, ma gli affreschi ancora esistenti sulle volte, i mosaici ancora incollati alle strutture murarie che i restauratori stanno rinfrescando, quello che era un triclinio con fontanelle e corsi d’acqua, riescono a restituire la suggestione del luogo.
Si entra da una scala che scende otto metri sottoterra. «La Lettura» ha visitato in anteprima i cantieri di restauro, siamo sotto la Domus Flavia costruita sopra la Transitoria che venne interrata, seppellita sotto una colata di malta, subito dopo l’incendio che devastò la Roma neroniana. L’ambiente centrale era con ogni probabilità un padiglione estivo con ampie porzioni esterne, mura di fondazione della costruzione successiva tagliano la struttura, ma si vedono le fontanelle che decoravano il triclinium, sulle volte a botte appaiono ancora scene bacchiche e dionisiache dai colori ocra, oro e crema, ampie aperture nelle pareti ricordano corsi d’acqua che come ruscelletti attraversano gli ambienti imperiali, nella stanza più grande c’è un ninfeo con una fontana, accanto un altro ambiente con i soffitti decorati. Un terzo è adibito alle latrine, luoghi per i bisogni corporali che potevano accogliere anche cinquanta persone in contemporanea, e raccontano un modo diverso, a noi lontano, di vivere i momenti privati. Ma anche la necessità di offrire un servizio necessario a molte persone simultaneamente. Forse gli stessi operai e tecnici che lavorano alla «fabbrica» della Domus.
«Questi ambienti suggestivi del palazzo imperiale sul Palatino, dove ovunque scorreva acqua attraverso fontane, cascate, ruscelletti, probabilmente fatti di padiglioni anche esterni con aree verdi, boschi e prati – continua Russo – erano noti come “Bagni di Livia” per un’erronea interpretazione del passato. La scoperta di marmi preziosi, colonne in porfido e capitelli in bronzo dorato e pitture spinsero nel 1721 i Farnese alla scavo spietato, ma anche alla spoliazione. Le pitture furono distaccate e portate a Parma, mentre marmi e colonne furono trasferiti nel 1728 dal duca di Beaufort nella sua residenza di Badminton».
La magnificenza di Nerone che si ispirava ai sovrani orientali, alle loro regge che occupavano intere città, colpì molto gli scopritori settecenteschi che portarono via, anche in maniera violenta, definitiva, tutto quello che riuscirono a strappare da soffitti e pareti. «Per l’apertura della Transitoria tornano da Napoli dopo 300 anni – continua Russo – dipinti e affreschi murali con scene epiche e dionisiache strappati dai soffitti neroniani. Sarà un lungo prestito frutto di un accordo tra il Museo archeologico nazionale di Napoli e il Parco e sarà parte del percorso offerto con la visita alla Domus». Le immagini esposte sono attribuite a Famulus o Fabullus, pittore della Domus Aurea citato da Plinio (Naturalis Historia, 35, 145 ). I restauratori lavorano a rinfrescare i marmi amati dall’imperatore, «cerchiamo di far risaltare la quadricromia neroniana, ovvero il giallo dalla Numidia, il bianco pavonazzetto dalla Turchia, il porfido rosso dall’Egitto e il porfido verde proveniente dalla rocca di Sparta», racconta Alessandro Lugari, restauratore.
Non si possono dimenticare i legami che rimandano dalla prima alla seconda reggia neroniana. «Le Domus Transitoria e Aurea, fatto salve le differenze progettuali e di scala, altro non rappresentano che la stessa idea programmatica – spiega Alessandro D’Alessio, archeologo responsabile della Domus Aurea – che si affermò nei pochi anni a cavallo del 64 d.C., ovvero la pretesa di un sovrano di travalicare i limiti del Palatino, dando forma e sostanza a quella Neropolis, che doveva far identificare l’Urbe con il suo “proprietario”». Ma l’obliterazione dei secoli e le scarse tracce archeologiche lasciate dalla prima residenza hanno dato ampio spazio al dibattito scientifico sulla sua esistenza e identificazione, come sottolinea Stefano Borghini, architetto e responsabile tecnico della Domus Aurea, che cita nel volume L’aureo Filo le diverse interpretazioni di due riconosciuti archeologi, Andrea Carandini e Adriano La Regina. «Come ogni forma di potere la politica edilizia nasconde un’ideologia – scrive Borghini —: importare a Roma un modello monocratico e dispotico». Un modello che l’Urbe rifiuta. Bollando come folle il suo imperatore.