La Lettura, 7 aprile 2019
Storia dei Simpson
Quando, dopo 35 anni di acrobatico delirio, Life in Hell è arrivata alla fine delle sue avventure, il dispiacere è stato tanto, ma lo stupore no: sorprendente era semmai che questo amaro momento fosse arrivato solo adesso. Perché dal 1977 al 2012 la striscia ha continuato a uscire puntuale ogni settimana su un numero sempre più grande di giornali e riviste, nonostante tutto quello che intanto succedeva addosso al suo creatore e unico autore.
Che si chiama Matt Groening, e nel frattempo si è inventato i Simpsons.
È sua la famiglia gialla che dal 1987 è diventata la caotica vicina di casa di tutti noi, grazie a un successo planetario che ha scolpito il loro profilo nell’immaginario di più generazioni. Ma dieci anni prima che arrivassero i Simpsons c’era Life in Hell, e la storia della sua nascita è quella classica, travagliata e poi gloriosa, della grande gavetta americana.
Nel 1977 infatti Groening ha 23 anni, e da Portland si trasferisce nella giungla urbana di Los Angeles, che promette le più grandi occasioni ma le custodisce in un intrico di seduzioni letali. Di colpo le luci, il frastuono, la smisurata prepotenza della metropoli gli sconvolgono l’esistenza, trasformandola in un’esperienza allucinante. E per raccontarla ad amici e parenti, per mandargli una cartolina sincera da questa «Vita all’inferno», Groening conosce una sola maniera: la disegna.
Ecco allora Binky, coniglio antropomorfo e tormentato, che ha denti sporgenti, occhi a palla e orecchie sparate verso il cielo, ma dalla bocca fa uscire i pensieri del suo creatore, miscuglio confuso di speranze e paure in un vortice di assurda comicità.
Groening disegna le tavole, poi le fotocopia e le spedisce agli amici. Ma stampa pure qualche copia extra, da vendere a due dollari nell’angolo punk del Licorice Pizza, il negozio di dischi dove lavora.
Così Life in Hell arriva a un editor di «Wet Magazine», che decide di pubblicarlo sulle sue pagine, e lo stesso farà nel 1980 il «Los Angeles Reader».
Intanto, al coniglio psicotico si affianca la fidanzata Sheba, che all’occhio sembra già una Marge Simpson con le orecchie lunghe al posto della torre di capelli blu, ma il suo carattere è assai meno comprensivo e accomodante, mutuato dalla fidanzata di Groening e perfetto per rendere ancor più travagliata la vita di Binky.
Accanto a loro il piccolo Bongo, timido e spaurito e con un orecchio solo, che ha preso il nome dal locale dove Binky l’ha concepito con una sconosciuta dopo una notte di oblio. E come se il delirio non bastasse, ecco Akbar e Jeff, misteriosi e spiazzanti, un po’ gemelli un po’ coppia gay, un fez in testa e una maglietta con la riga orizzontale che ricorda quella di Charlie Brown.
È proprio così che sono nati, quando Groening da bambino tentava maldestramente di imitare i Peanuts, la meravigliosa «striscia sul subbuglio nevrotico disegnata con semplicità», che è stata la sua prima e più profonda ispirazione.
Ogni settimana questo gruppo sbilenco affronta situazioni così assurde e impossibili che solo la vita vera è in grado di offrire: disagio sociale, incomprensioni amorose, l’inferno dell’ufficio e quello della scuola, dove capi spregevoli e sadici professori vessano costantemente Binky e Bongo, mentre Sheba sul divano insiste ad analizzare le proprie emozioni e Akbar e Jeff fanno capriole formidabili nel parco giochi dell’insensatezza.
Intanto Life in Hell diventa un successo nel mondo dell’underground, e il suo nome si sparge tra le orecchie più attente. Fino a quelle del produttore hollywoodiano James L. Brooks, che chiede a Groening di sviluppare una versione animata della striscia.
È la grande occasione, e Groening perde il sonno a lavorarci. Capisce che dovrà operare degli aggiustamenti qua e là, per adattare i suoi personaggi ai tempi e ai modi della televisione. Ma al tempo stesso capisce che non vuole farlo: Binky, Sheba, Bongo, Akbar e Jeff non sono solo sue creazioni, sono le sue creature, e ha paura di perderle, di non sentirle più sue.
Allora, dopo giorni di tormento, la leggenda narra che all’ultimo minuto, nella sala d’aspetto prima di essere ricevuto da Brooks, Groening abbia buttato giù lo schizzo di una famiglia tutta diversa, fatta di umani stavolta, ma non meno disfunzionale.
Il padre lo chiama Homer come il suo, e così fa con Marge, Lisa e Maggie, mentre per il ragazzino teppista coi capelli a punta sceglie il nome di Bart.
Poi entra nell’ufficio del produttore, col cuore pieno di ansia e nelle mani quest’idea alternativa improvvisata lì per lì. E non occorre raccontare com’è andata a finire.
Anzi, a iniziare. Perché da quel momento, i Simpsons e il loro creatore decollano a razzo nel firmamento di un successo colossale e travolgente, che dura ancora oggi dopo trenta stagioni e più di 650 episodi.
Col tempo, ai Simpsons si affianca un’altra serie animata, la fantascientifica Futurama, e la recente Disincanto. E poi film, dischi, libri, gadget di ogni tipo, impegni e scadenze in quantità che solo a pensarci gira la testa.
E allora ecco che torniamo all’inizio del nostro discorso, a quel 2012 in cui Matt Groening annuncia la fine di Life in Hell, e la notizia non suscita troppa sorpresa.
Perché è molto più sorprendente che per 35 anni, nonostante il successo dei Simpsons, ogni settimana abbia trovato il tempo per ideare, scrivere e disegnare la sua striscia e far vivere i suoi amati, odiati conigli. Pubblicati in contemporanea su centinaia di testate nel mondo, pure in Italia su «Linus» dal 1992 al 2000.
E quando Groening dice basta, la sua decisione non arriva per mancanza di tempo o di ispirazione. A chi gli domanda se ha chiuso la striscia perché ha finito le battute, risponde: «È assai chiaro che le battute le ho esaurite da una ventina d’anni ormai, ma questo non ha mai fermato un fumettista». A fermarlo sono stati invece motivi pratici e indipendenti da lui: la crisi della carta stampata, la cancellazione delle pagine dei fumetti su molti giornali per ridurre le spese. Altrimenti, Groening sarebbe ancora lì al suo tavolo a disegnare Life in Hell.
Perché questo universo allucinato gli nasce dal profondo, e raccontare dei suoi conigli è il modo più autentico per scrivere di sé, di tutti noi, delle nostre vite attorcigliate e assurde.
La paura di crescere, di invecchiare, di essere padri e figli, di amare ed essere amati. Con storie che spesso non hanno una storia, dove il motore della narrazione sono le emozioni, i sentimenti, come cerchi nell’acqua che arrivano a smuovere fino all’ultimo angolo dell’anima.
E così, nella sua vita straripante di impegni e responsabilità, Matt Groening ogni settimana si concedeva la gioia semplice e vera di sedersi al tavolo e creare da solo, senza collaboratori, senza editor e produttori. Come all’inizio, quando aveva vent’anni e lavorava in un negozio di dischi, e dopo aver disegnato le tavole andava a fotocopiarle per farle leggere agli amici.
«La bellezza delle strisce», spiega, «è che di solito sono fatte a mano, sia il disegno che le parole, e la sensazione è proprio che siano il pensiero puro e inalterato di una sola persona».
Questa persona è Matt Groening, ma nelle pagine de Il grande libro dell’inferno, la favolosa raccolta di Coconino Press curata dall’autore stesso, insieme a lui ritroviamo noi stessi e le nostre esistenze, così normali e così assurde.
A volte sono situazioni lampo, altre sono riflessioni ad alta voce, col disegno che quasi scompare per lasciare spazio ai testi, splendidamente tradotti da Francesco Pacifico.
Affrontano i temi più profondi e generali della vita, e altri assai più specifici ma non meno fondamentali, come «Balle che ho detto a mia sorella minore», «Il collega insopportabile», «Che programmi hai per l’Aldilà?», «Cosa fa la scuola al tuo cervello» e «16 tipi di mamma».
Leggendo, si ride molto. Ma ancor più spesso ci si scopre a nuotare insieme a Binky nelle acque agitate dei suoi giorni, tra ansie, paure, speranze. Nei picchi e negli abissi che sono il profilo vertiginoso della nostra esistenza.
Perché quei conigli coi dentoni e le orecchie lunghe, quei gemelli col fez e la maglietta disegnata male, siamo proprio noi, e la loro storia è la più assurda e impossibile, cioè la nostra vita.
E allora, quando una delle tavole più illuminanti della raccolta chiede: «I personaggi de Il grande libro dell’inferno raggiungeranno mai la felicità?», l’unica risposta possibile ci incanta e ci inchioda con la sua semplice, spietata verità: «Che domanda sciocca! Binky e la sua banda saranno felici quanto lo siete voi».